1 aprile 2009

LA QUADRATURA DEL CERCHIO


Anche Milano avrà il suo Guggenehim. In realtà si tratta di un Museo di Arte Contemporanea (MAC) e non di una nuova sede della fondazione nata nel 1937. Però dal punto di vista del marketing territoriale l’operazione è la stessa. Non un “lumacone” di titanio firmato Frank Ghery, bensì qualcosa di più vicino alle corde meneghine. Almeno secondo quanto sostenuto dal suo autore, Daniel Libeskind durante la presentazione del progetto alla Triennale. “Questo museo è pensato unicamente per la città di Milano, la migliore città per l’architettura”. E infatti, ispirandosi a Da Vinci (Leonardo e non il Codice di Dan Brown, si spera) e al suo uomo vitruviano, l’archistar, che ha vissuto a lungo a Milano, ha progettato un contenitore dalla base quadrata che si trasforma in cerchio perfetto attraverso una progressiva torsione dei suoi gradoni. Una moderna piramide rivestita col marmo di Candoglia, che, in teoria e secondo una legge regionale piemontese, “dovrebbe essere” riservato esclusivamente alla Fabbrica del Duomo. Ad usum Fabricae, si diceva un tempo. Di qui il detto “ad ufo”. Significativo, no? Il tutto condito con giardini pensili (babilonesi?) e terme (romane?). E con qualche spazio espositivo (circa il 45% della superficie totale, come da accordo di programma tra Comune, Regione e Provincia), visto che dopotutto si tratta di un museo.

Chiaramente inserito nella tradizione contemporanea che vuole il contenitore più importante del contenuto, come nel caso di Bilbao. Ma ciò non deve stupire visto che lo stesso (ex) assessore Sgarbi lo affermò pubblicamente durante la presentazione: “Il progetto di Libeskind è innovativo per la città di Milano e si inserisce in un filone di musei che sono monumenti essi stessi prima che contenitori di opere, come il Guggenheim di New York, quello di Bilbao e il Beaubourg di Parigi: luoghi in cui l’architetto diventa garante per l’arte contemporanea essendo lui stesso un artista contemporaneo”.

Il costo dell’operazione è di 40 milioni di euro. Ed essendo opera di interesse pubblico di costo superiore ai 5 milioni, avrebbe dovuto essere oggetto di un concorso. Così non è stato. L’Ordine degli Architetti di Milano ha giustamente presentato ricorso e il finale della storia lo scriverà il Tar.

Sembra in questo caso di ripercorrere le vicende che nel decennio precedente hanno portato alla realizzazione del Teatro degli Arcimboldi alla Bicocca. Un’opera pubblica compiuta senza concorso, “imposta” alla città da un accordo tra privati, coll’amministrazione che subisce prona e passiva. L’unica differenza rispetto ad allora è proprio il ruolo del pubblico, che dall’accettazione rassegnata è passato alla complicità gongolante.

Il punto è proprio questo.

Milano sta per dotarsi di un nuovo strumento urbanistico: il Piano di Governo del Territorio. Rispetto al vecchio PRG, l’impostazione è completamente diversa. Eliminato l’atteggiamento ideologicamente vincolistico e paternalista, che ha costretto il Comune negli ultimi 30 anni ad inseguire le profonde e repentine trasformazioni di una società molto più dinamica e mutevole di chi era preposto a governarla, il nuovo piano si propone come un dispositivo dotato di poche e chiare regole ma di una precisa visione di insieme, di un’idea di città capace di indirizzare e concertare le trasformazioni in modo flessibile ed efficace. Sulla carta tutto molto bello e molto giusto. Peccato che per far funzionare in maniera corretta questo meccanismo siano necessari due attori, quello pubblico (il Comune) e quello privato, che si trovino sullo stesso piano, dotati di eguale peso specifico. Dato che le trasformazioni si concertano e si contrattano e non sono più sancite da indici e zonizzazioni, dato che la rendita fondiaria è sostituita (forse giustamente) dall’arbitrio di chi (ci) governa, occorre che costui sia in grado di reggere lo scontro con la controparte privata, di tutelare gli interessi della collettività rispetto alle comprensibili esigenze economiche di chi agisce sul territorio. Insomma dal momento che le trasformazioni le fa chi ha i soldi e i capitali sono in larga parte privati, il ruolo del pubblico è quello di controllarle e di ottenere per sé (e quindi per i cittadini che rappresenta) il massimo tornaconto.

Ora, se dobbiamo basarci sugli esempi precedenti (Arcimboldi e MAC), ci permettiamo di nutrire qualche preoccupazione. E quindi terremo gli occhi ben aperti.

Pietro Cafiero



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