1 aprile 2009

WCJ. LA PORTA DI MILANO


Il nuovo WJC, ovvero World Jewellery Center, è un’opera minore nel panorama dei grandi interventi milanesi, ma si propone con grandi ambizioni, per posizione soprattutto, ma anche per velleità. Per posizione perché si sta riconfigurando in questa zona, nell’area del Portello Nord, il nuovo ingresso alla città. Per velleità perché il WJC si propone come, di questa porta, la nuova icona rappresentativa. Tale delicato contesto, in teoria, richiederebbe parole ben calibrate. In pratica non è così.

Annunciato da un eccessivamente sgargiante sovrappasso in ferro che scavalca la carreggiata, il WJC sarà il distretto commerciale, produttivo e di rappresentanza delle imprese orafe lombarde, un distretto verticale, poiché si presenta nelle vesti di una curva torre vetrata, o meglio due, articolate in volumi di 9 e 18 piani di altezza. Dunque l’ennesimo ‘landmark’ nel trend di revisione dello skyline complessivo della città.

Poi, andando ad analizzare l’intervento, non si può non dire del patchwork volumetrico e linguistico che si sta configurando. Il tutto insiste in una planimetria ovoidale. “L’uovo è una forma perfetta benché sia fatta col culo”, diceva Bruno Munari. Ma poiché si parla di un comparto del lusso, e il lusso per Munari non era un problema di design, si suppone che non sia precisamente quello il riferimento. Ma tant’è.

Le torri scontano il classico (ma non inevitabile) abbassamento di tono dall’algida immagine dei rendering a quella della realtà. Un curtain wall piuttosto ordinario, opache fasce marcapiano, cornici di lamiera stirata che guardano a una certa intransigenza materica della contemporaneità ma si risolvono in testate dal modesto idioma commerciale, mentre quella durezza torna nel rivestimento degli attacchi a terra, ma è un po’ sorda e avvolge il tutto in una sorta di legaccio figurativo. Questo s’interrompe in corrispondenza degli ingressi alla piazza centrale, fuoco planimetrico in parte coperto e atrio degli scambi e delle relazioni, il che non sarebbe una cattiva idea, perché rompe il guscio dell’uovo. Ma tale idea bisognava portarla fino in fondo, facendone un luogo pubblico di attraversamento in continuità con il tessuto urbano. Così non è, e diventa retorica, mentre prevale la bulimia monumentale e un po’ fuori luogo della sua grande tettoia inclinata, un cappello a tesa extra-large che, tra l’altro, non segue la continuità delle curve proponendosi con un incombente profilo spezzato, che sa un po’ di appiccicaticcio. Certo le differenze tra desiderata e soluzioni costruttive colpisce molti e talvolta illustri, come certa fluida aerodinamica di Zaha Hadid che spesso non regge alla prova dei fatti in cemento armato. Buone compagnie, dunque. Ma proseguiamo il giro.

Sul lato nord, la parte più articolata dell’intervento è anche, se vogliamo, la più vezzosa, con un corpo basso circondato da un porticato ritmico a mo’ di sporgente reticolo strutturale. Memoria di sofisticato razionalismo italiano? Chissà, ma se così fosse se ne è presa la forma senza comprenderne lo spirito, perché qui non è la matrice rivelata all’osso di una tamponatura mancante, cosa che un Guido Canali ha invece capito benissimo, per esempio, ma una citazione fuori contesto culturale. Il contesto culturale, invece, è molto chiaro nella vetrata strutturale retrostante, risolta con quei ‘ragnetti’ nati in nobili contesti e trasferiti d’ufficio in tanta architettura, commerciale e non, degli ultimi decenni, poiché garantiscono sempre, un po’ per inerzia mentale, quell’effetto abbastanza moderno, abbastanza tecno, abbastanza cool, da averne abbastanza.

Va bene. Sarebbe ingeneroso dare tutte le colpe al WJC, che in fondo brilla sullo sfondo delle tre torri residenziali attigue, piuttosto imbarazzanti. Poi, nel mezzo di tale modesto catalogo, si scorgono sullo sfondo lontano le belle residenze di Cino Zucchi, episodio architettonico tanto corretto quanto raro nell’odierno panorama milanese, che visto da qui rallegra come la classica luce in fondo al tunnel. E a proposito di tunnel, tanto per completare il quadro, il sottopasso che taglia la zona collegando viale De Gasperi a via Gattamelata (nelle prime intenzioni) e che arriva ormai in ritardo chiudendo la stalla della nuova viabilità a servizio della Fiera quando i buoi (la Fiera stessa) se ne sono già scappati a Rho, sembra la chiosa finale (o la premessa?) di quest’ennesima occasione mancata: rispondere a un pasticciato lessico architettonico con una buona dose di balbuzie urbanistica.

Michele Calzavara




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