1 aprile 2009

IL TRIBUNALE DI MILANO


La civiltà di un Paese si misura anche dal funzionamento della sua amministrazione giudiziaria: come per un Paese così per le sue città.

Per noi, dunque, eredi diretti del diritto romano, la cosa riveste anche un valore simbolico e per noi milanesi, concittadini di Beccarla, qualcosa di più ancora. Così come ci vantiamo di essere la culla del diritto penso che possiamo fregiarci del titolo di popolo più litigioso al mondo. Le due cose messe insieme fanno del problema della giustizia uno dei più gravi problemi della nostra società, che si trova sempre combattuta tra giustizialismo e garantismo.

Anche di questo ho parlato con Livia Pomodoro, presidente del Tribunale di Milano, nell’intervista che si può vedere nello spazio You Tube di questo giornale.

Il tema della giustizia ha declinazioni locali importantissime e per una comunità degli affari, com’è quella milanese, uno scorretto funzionamento dell’amministrazione giudiziaria rappresenta un indubbio freno alla sua attività economica e allontana gli operatori stranieri da una piazza nella quale ottenere giustizia vuol dire in qualche caso attendere anni. Una causa della lentezza è certamente la mole di leggi e disposizioni che ormai si accumulano come una gigantesca montagna nella quale si deve scavare con infinita pazienza per ritrovare norme vecchie e nuove che regolano la nostra vita personale, economica e sociale. Così come diciamo “beato il Paese che non ah bisogno di eroi”, potremmo dire “beato il Pese al quale servono poche leggi per essere civile”.

Mi domando se la crisi economica che stiamo attraversando, rimettendo in discussione tanti aspetti della nostra vita e delle nostre attività umane, non possa promuovere anche una profonda revisione del sistema legislativo e dell’amministrazione della giustizia. Troppe volte negli ultimi tempi abbiamo sentito gridare: “Voglio giustizia!”, come se fosse un desiderio irrealizzabile. Toppe volte abbiamo visto il desiderio della gente di vedere puniti i colpevoli andare frustrato in processi mai celebrati o mai giunti a sentenza o ancor peggio mai iniziati per banali vizi di forma.

Ma il funzionamento della giustizia è anche legato ai “luoghi” nei quali la si amministra. Il Tribunale di Milano è un esempio clamoroso.

Nella sua inadeguatezza coesistono due aspetti: da un lato l’inutile monumentalità tributaria di una cultura che non ci appartiene più. Dall’altra ecco gli spazi ristretti dei sopralzi dove l’atmosfera è più quella di un affollato tribunale levantino con le parti in causa e gli avvocati che si affollano contendendosi fisicamente l’aria per respirare e i posti a sedere. L’ipotesi del trasferimento del tribunale ormai è qualcosa di più che un vago progetto, anche se l’insediamento futuro a Porto di Mare, lungo la linea 3 della MM, non ha forse tutti i requisiti che servirebbero a cominciare proprio da quella linea della MM troppo rumorosa e che mostra più anni della linea 1 che l’ha preceduta di un pezzo. Anche di questo abbiamo voluto parlare con Livia Pomodoro durante l’intervista e la sua opinione ovviamente ha un peso rilevante.

Cosa ne pensino invece gli avvocati è difficile dire: un mondo da sempre attestato intorno all’attuale Palazzo di Giustizia. Forse persino tra avvocati penalisti e avvocati civilisti vi possono essere divisioni marcate: sono comunque in campo interessi immobiliari tutt’altro che trascurabili.

Per chi considera che la semantica abbia peso rilevante nella comunicazione concorderà col fatto che il termine di “Cittadella della giustizia” non è dei meglio scelti: vi è una certa aria di separatezza, di fortilizio, di alterigia che non conferma nel cittadino il sentimento di una giustizia vicina, comprensibile, fatta per pacificare più che per dividere, per educare più che per reprimere.

Siamo concittadini di Beccarla, meglio non dimenticarlo.

Luca Beltrami Gadola



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