18 luglio 2012

musica


BACCHETTI BAROCCO

 

Rieccolo. Non si tratta né del Fanfani montanelliano né dell’innominabile tycoon delle cronache politiche di questi giorni, ma del molto più innocente pianista Andrea Bacchetti, già noto a queste nostre modeste cronache per essere un musicista anomalo, bravo, provocatorio, sempre interessante e intrigante.

Si è presentato domenica scorsa, alla fine di un pomeriggio torrido – ma nella fresca e accogliente sala dell’Auditorium, purtroppo semivuota – con un programma sostanzialmente identico a quello che eseguì un anno fa al Conservatorio, di musiche tutte settecentesche che inanellavano brevi e deliziose sonate e minuetti – tutti pensati e scritti per il clavicembalo – di Baldassarre Galuppi (1706-1785), Benedetto Marcello (1686-1739), Giovanni Paisiello (1740-1816), Antonio Soler (1729- 1783) e Domenico Scarlatti (1685-1757), con due vistose eccezioni: il finale scintillante della “Tarantelle pur sang, avec traversée de la procession“, tratta dai “Péchées de vieillesse” di Gioacchino Rossini e – come entrée del secondo tempo – due arie della “Petite suite pour piano” di Luciano Berio.

Già il programma, decisamente fuor del comune e tuttavia di elevatissima godibilità; poi la modalità, senza interruzione fra un pezzo e l’altro, con gli applausi consentiti solo alla fine dei due tempi; infine l’interpretazione, una sorta di manifesto contro la prassi esecutiva ormai consolidata del “barocco” galante e leggiadro. Tutto dimostra che Bacchetti “non ci sta più” e vuole cambiare, intende una musica diversa e propone un approccio nuovo all’ascolto, vuole esplorare terreni alternativi pur all’interno di una fondamentale ortodossia.

Suona la musica italiana del settecento avvolgendola nel pathos del romanticismo tedesco, probabilmente come la eseguivano Listz o Mendelssohn, Chopin o Schumann, a Parigi o a Lipsia, più di un secolo dopo. Non dà alcun peso alla compiutezza o all’integrità della singola opera (i movimenti alternati e ordinati da un inizio a una fine) ma snocciola i pezzi uno dopo l’altro come se costituissero una Suite scritta da un unico compositore. Ignora totalmente la dittatura della lettura filologica dei testi, li usa come canovaccio per una sua personale narrazione, attento però a non tradire la scrittura e prendendosi solo le libertà concesse.

Lui non celebra il rito classico del concerto, non viene a “servire” i maestri del passato per restituirci la loro personalità e il loro volere, non è un loro testimone; celebra un altro rito, quello del pianista che ha il suo personale, intimo modo di leggere e di godere la musica che vuole condividere con il suo pubblico, portando con sé e trasmettendo tutto quello che la musica gli dà in termini di sentimenti e di emozioni. Non si devono fare paragoni con altre esecuzioni, bisogna dimenticare il concetto di esegesi musicale; bisogna chiudere gli occhi, ascoltare, e possibilmente emozionarsi e godere.

Ciò premesso non possiamo esimerci dall’osservare alcune cose.

Innanzitutto, quando al secondo tempo riprende il concerto con i due piccoli e dolcissimi pezzi giovanili di Luciano Berio (1925-2003), è straordinario osservare come si stenti a capire che è musica atonale o post tonale della piena metà del secolo scorso. La nuova musica viene presa nel racconto e diventa una voce che dialoga a pieno titolo con l’altra e dice la sua senza creare scandalo né discontinuità né frizioni; e ancor più naturale è la continuità che si stabilisce, subito dopo, con le sonate di Scarlatti, altre perle della stessa collana.

E poi quel finale, con Rossini che sembra riassumere nella Tarantella napoletana l’intera esperienza settecentesca (tutta italiana!), farne un bouquet musicale, e con quella sua aria sorniona presentarlo al pubblico parigino in piena Restaurazione… un fantastico coup de theatre!

Peccato che poi Bacchetti abbia proposto due bis che, pur eseguiti in modo esemplare, non c’entravano nulla con l’intelligenza del programma e in qualche modo ne negavano la logica: una “Consolazione” di Liszt e una “Toccata” di Bach. La prima (funestata – ahimè – dal cellulare di chi scrive, arrivato per la vergogna sull’orlo di un infarto letale) di un romanticismo che in quell’atmosfera appariva quasi sdolcinato; la seconda, assolutamente straordinaria, sembrava guardare severamente, dall’alto del suo luterano rigore, i farfalloni coetanei italiani appena ascoltati. Bacchetti, perché l’hai fatto?

 

 

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org

 

 



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