2 luglio 2012

SPAZI VUOTI URBANI E SPAZI DI POLITICA: UNDER 30


Il tema è questo: lo spazio per la politica nella società oramai molto più che liquida. Nella società che ha sgretolato tutti i possibili terrazzamenti della pensabilità; che per parafrasare Zygmund Bauman è un campeggio dove tutti vanno e vengono senza lasciare traccia di sé, la stessa politica si è connotata in questi termini: leader e leaderini diafani che nascono e muoiono in una nota su Facebook, che impazzano sui social network per poi scomparire in un soffio. Lo stesso sbandamento si percepisce nell’essenza stessa dei movimenti, dagli #occupy&indignados vari ed eventuali, ai grillini, che sono l’ipostasi di questa destrutturazione della politica.

Ma anche il PD non è certo immune, risultando un ammasso più o meno caotico di persone e personalità che fatica a trovare idee comuni, non per colpa sua, ma perché sfido chiunque a trovare idee comuni solide al giorno d’oggi. È come se la realtà odierna fosse una reazione atomica in continua oscillazione energetica, un qualcosa che con computer sofisticatissimi cerchiamo di stabilizzare ma non ci riusciamo mai. E non riusciamo a trovare gli strumenti intellettuali per affrontare questa realtà in divenire, o forse siamo cresciuti abbastanza come uomini per capire che è inutile. Ma non è questo il punto.

Il punto è che quando si fa politica la realtà non va solo interpretata, ma plasmata. È la differenza che c’è tra l’anatomopatologo e il chirurgo. Tra chi constata il decesso e chi deve evitarlo. Se si fa politica ci si pone nella situazione di dover agire per forza. Ma come? Nel momento in cui manca la conoscenza anatomica, o è tragicamente parziale, si tratta di curare una malattia sconosciuta. Di introdurre tentativi di cura, sperimentare, inventare nella speranza di trovare “LA” cura definitiva o comunque migliore.

E allora è bello vedere la mia generazione che si arrabatta per ritagliare un qualche senso alla sua attività pubblica, al suo impegno al di là della sfera personale. È chiaro che in una società come la nostra la sfida più grande di un ragazzo che fa politica è il “perché??”. Era facile trent’anni dire: se “mi identifico in queste idee” (e per queste idee intendiamo un qualsiasi paradigma o sottoparadigma novecentesco) allora “mi iscrivo / aderisco / partecipo a questo gruppo”. Era più facile credere in qualcosa, molto più facile. Ora, è proprio l’impossibilità di illudersi e dunque di lanciarsi a cuore aperto su grandi ideali che tarpa le ali a una generazione. Troppo delusi, troppo scafati ma anche desiderosi di agire.

E allora, lasciando da parte le fascinazioni per i vari guru della rete o della rivoluzione perpetua, ecco che spunta il lato pragmatico della mia generazione. Un ripiegare dall’homo politicus all’homo faber. La “politica” (intesa in senso generale, come occuparsi della collettività) fa come la Parietaria officinalis e compare negli interstizi, si prende cura di piccole realtà abbandonate, si fa spazio nelle faglie della società liquida, dove riesce a trovare un po’ di terra e un po’ di solidità.

E così nasce nella protesta antisistema l’orto degli Indignados in Plaza de Catalunya a Barcellona, fatto da un ragazzo milanese e ricavato nelle aiuole della piazza barcellonese, o l’occupazione di un grattacielo abbandonato con il gruppo di giardinaggio urbano (leggi MACAO) o, ancora, i ragazzi del Guerrilla Gardening. Ma andando al di là della lettera botanica potrei citare l’occupazione dell’ex libreria CUEM della statale dove si fa scambio di libri e Microonde libero (vai, porti il pranzo, te lo scaldi e mangi in compagnia). O la palestra autogestita di arrampicata a ZAM (Zona Autonoma Milano – Via Olgiati) che offre per i neoappassionati di montagna uno spazio comune per arrampicare. O la palestra, palestra e basta con pesi e bilancieri, che degli altri miei amici stanno facendo nascere in via Torricelli. Anche lì autogestita, anche lì occupata.

Oppure i ragazzi dell’associazione Ape che si ritrovano a gestire 500 giovani a sera in piazza Affari e a lanciare la nuova moda dell’estate, riempiono uno spazio normalmente vuoto (e questo credo sia comune a tutte le attività elencate) e compiono un gesto simbolico contro lo strapotere finanziario. Oppure il circolo ARCI Check Point Charlie di via Mecenate, che ha rivitalizzato il vecchio circolo PD, aprendo uno sportello di cittadinanza (e di divertimento) all’interno del quartiere.

Tendiamo a trovare il lato pratico più convincente di quello ideale. Certo anche l’ideale ci piace. Ma va cercato a lungo e nella ricerca è facile illudersi e siamo stufi. Siamo stufi di illuderci e di farci illudere. La morale della favola è che nell’epoca della rete, la realtà conterà sempre di più. Nell’epoca del diafano altalenarsi tra verità e incertezza, l’avere luoghi tangibili e cose realizzabili è importantissimo. Più importante di avere qualcosa in cui credere. Nell’epoca che viviamo vale di più un sogno minimo che vediamo con gli occhi che un sogno generale che fatichiamo a inquadrare. A capire o a cogliere. E vi assicuro che se parlerete con questi ragazzi, vi accorgerete di quanto gli brillino gli occhi mentre vi raccontano la loro idea, il resto è qualcosa che “sì è vero”, ma più di tanto non li emoziona.

 

Giacomo Marossi

 



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