26 giugno 2012

UOMINI IN EDUCAZIONE: LA SCOMPARSA DI UN GENERE


Se si parla di uomini in educazione, si parla, soprattutto, di un’assenza. Scrive Andrea Marchesi, educatore e supervisore pedagogico. “Un collega mi racconta che si sono dimessi tre educatori nel giro di poche settimane e nella sua cooperativa sono disperati perché non riescono a trovare figure maschili (…). Entro in un’aula universitaria, corso di laurea in scienze dell’educazione, 200 persone circa: mi bastano le dita per contare gli uomini presenti. Mi chiamano per una consulenza pedagogica in una scuola primaria (…) partecipo al collegio docenti: incontro solo donne. Una richiesta di supervisione in una comunità per minori: il coordinatore è l’unico uomo dell’equipe. Dall’università ai servizi territoriali fino alla scuola (almeno tra scuola dell’infanzia e secondaria di primo grado) sembra di assistere all’evaporazione degli educatori, alla progressiva scomparsa di uomini professionisti dell’educazione.” (1)

Questa la situazione, eppure non se ne parla o se ne parla troppo poco: si tratta di un’evidenza invisibile, una realtà così nota, così scontata al punto da non vederla più e si legittima così, col quasi-silenzio, un fenomeno preoccupante, si impedisce di prefigurare interventi e non si lascia spazio neppure alla possibilità di nominare i danni che ne derivano.

Cominciamo allora a porci alcune domande: perché si è creata questa situazione? E perché non se ne parla?

Si dice – e anche questo appartiene al senso comune – che gli uomini non sono presenti nelle professioni educative perché si tratta di lavori poco remunerativi e con scarsa visibilità sociale. Questa spiegazione non è sufficiente: i giovani sono alla disperata ricerca di un lavoro e quando lo trovano rimangono a lungo precari e con scarsi guadagni. Nel settore delle professioni educative, invece, c’è una grande richiesta di uomini, è uno dei pochissimi casi in cui la domanda di lavoro supera l’offerta.

D’altronde il bisogno di guadagni adeguati per gli uomini – e molto meno per le donne – cela uno stereotipo e una convinzione, salda ma destituita di realtà nel contemporaneo, che lega ancora la figura maschile al ruolo di bredwinner, colui che procaccia il reddito per la famiglia. Non è più così: la costruzione del reddito è prevalentemente divisa all’interno della coppia e vi sono casi, soprattutto tra i giovani, in cui la donna guadagna di più. Dunque nessun dato di realtà, solo uno stereotipo tenace.

Se ne parla poco o nulla per i motivi cui accennavo in precedenza, ma anche perché le professioni educative appartengono a quell’area di lavori definiti lavori di cura e della cura se ne occupano le donne. E ciò che avviene da sempre appare naturale, non vi si applica né riflessione né critica: è così ed è giusto che sia così.

Eppure ora gli uomini mostrano desideri fino a poco tempo fa impensati: desiderano essere padri nuovi, desiderano – e lo fanno in molti – prendersi cura dei loro figli e figlie. Questo dato presenta molti significati, e molte problematiche, che non posso ora prendere in esame, mi limito a porre un’altra domanda: perché questo desiderio maschile di cura non si trasferisce negli ambiti professionali?

Non so rispondere, penso però che la paternità e i compiti di cura che comporta, se vissuta nel nuovo modo che ora alcuni uomini si propongono, sia un primo passaggio, forse il più facile e immediato per una trasformazione, inevitabilmente radicale, di quel che significa oggi essere e diventare uomini, per superare le barriere di genere che hanno dettato norme e imposto al sesso maschile la lontananza dall’intimità nelle relazioni, dalla condivisa interdipendenza che caratterizza l’essere nel mondo degli umani.

L’imperativo sii uomo non ha tollerato cedimenti, non ha dato spazio ai gesti, alle parole e alle responsabilità della cura, ha voluto creare maschi che non solo non devono chiedere mai, ma non devono neppure rispondere alle domande di chi ha bisogno di relazioni accuditive. Questo imperativo ha in realtà creato figure maschili vulnerabili poiché sempre nella necessità di dimostrare la loro virilità. Una prova continua, che rende la maschilità non ciò che si è ma ciò che si deve essere.

E allora? Si tratta ancora di una serie di stereotipi, di un problema di culture tradizionali e che non corrispondono più alla realtà e alle necessità del nostro tempo. Un problema culturale quindi e, come tale, superabile, perché le culture, anche le più tenaci, si possono trasformare, adeguare alle nuove domande. Basta che queste domande si cominci finalmente a porsele. Domande serie, che chiedono lo sforzo di superare l’ovvio, il già dato, l’invisibilità delle evidenze.

Ed è urgente farlo perché le assenze maschili in educazione creano problemi gravi, soprattutto tra chi è più giovane e viene educato o educata in un mondo tutto femminile e cresce nella convinzione che a prendersi cura siano sempre e soltanto le donne, che gli uomini non sanno, possono o vogliono farlo e quindi si occupano di altro. Una catena di convinzioni che prolunga nel tempo gli stereotipi di genere. E chi ne subisce i maggiori danni sono proprio i giovani maschi, sottoposti a visioni di toraci maschili gonfi di inutili muscoli, a un potere corrotto ma tenacemente maschio, alle tentazioni di risolvere i loro problemi attraverso la via della violenza.

Che fare dunque? Occorre sradicare questi stereotipi, apprendere e insegnare capacità critica, indurre e indursi il più possibile a un pensiero libero dalle tradizioni culturali dell’essere uomini e donne che ancora ci ingabbiano. La scuola e le altre agenzie formative sono i primi luoghi in cui muoversi, ma non è facile, perché essere e divenire nuovi uomini appare un compito arduo, anche perché manca largamente di modelli positivi. Gli insegnanti maschi ad esempio, così pochi e così incerti sul loro ruolo di educatori, soprattutto di chi appartiene al loro genere. Ma così incerti anche su quel che significa – in primo luogo per loro – essere uomini.

Si può avviare allora una ricerca comune, tra adulti e giovani. Scrive Andrea Bagni, un insegnante di scuola superiore: “Il lavoro da fare con i ragazzi, me lo racconto come il tentativo di contribuire a una liberazione. Aiutare l’apertura dei percorsi, degli orizzonti. Offrire – cioè essere – altri modelli possibili di uomo. Che non vuol dire dare direttive etiche, indicare obiettivi da raggiungere, immagini ideali. Non è usare la cattedra (qualunque “cattedra”) per delle prediche, sia pure illuminate o rivoluzionarie. Saremmo sempre all’interno di una gerarchia che non sarebbe autorevole, perché qui l’unica autorevolezza possibile è quella che nasce dall’orizzontalità che condivide domande e dubbi. Da un non-sapere dell’essere uomini. Cioè da un cercare (…) Forse significa anche continuare a giocare con il genere maschile e con i suoi disastri. Non fare come se non esistessero – e come se non agissero (…). Attraversare continuamente il confine fra ciò che appartiene alla cultura dominante e ciò che siamo noi. O vogliamo essere.” (2)

Barbara Mapelli

 

 

(1) Lo scritto di Andrea Marchesi apparirà in un volume, di prossima pubblicazione (ed. Stripes, Milano), dal titolo provvisorio Uomini in educazione, che dà conto di un Convegno che si è tenuto presso l’Università di Milano Bicocca il 14 marzo 2012, promosso dalla Facoltà di Scienze della Formazione e dal Centro interdipartimentale di Studi di genere dell’Ateneo

(2) Andrea Bagni, “Didattica della liberazione dal potere maschile“, in, Stefano Ciccone, Barbara Mapelli, Silenzi. Non detti, reticenze e assenza di (tra) donne e uomini, Ediesse, Roma 2012, pp.139-148



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