26 marzo 2009

C’ERA UNA VOLTA L’INTERNAZIONALISMO


Fine ‘800: oltre 100 lavoratori emigranti italiani sono uccisi durante pogrom a cui partecipano lavoratori francesi. Sono accusati di rubare il lavoro, ma anche di essere “brutti, sporchi e cattivi, insomma stranieri”

2009: migliaia di lavoratori inglesi dell’industria petrolifera scioperano contro i lavoratori italiani e portoghesi. Sono accusati di rubare il lavoro, ma anche di essere “brutti, sporchi e cattivi, insomma stranieri”, e per ora non vengono ammazzati.

Come un secolo fa, come sempre, la lotta per sopravvivere diventa selvaggia quando la crisi morde e gli istinti, nutriti dei pregiudizi, impediscono di leggere la situazione e di cogliere come siano del tutto prevalenti le ragioni della comunanza di interessi tra lavoratori rispetto a quelle della loro divisione.

Secondo un recente articolo del Financial Times cresce sempre più il sentimento di paura tra i lavoratori europei e si diffonde il sentimento di ostilità verso i colleghi “stranieri“. Un sentimento che trova, anzi deve trovare, uno sgradevole compagno di viaggio, ed un impareggiabile detonatore sociale, nella repulsione xenofoba e sciovinista verso lo straniero.

Allora tutto uguale ad un secolo fa?

Nulla è cambiato? I pronipoti di oggi come i bisnonni di allora? E soprattutto lo scenario della guerra civile europea come epilogo ultimo della crisi, a questo punto, portato però su scala mondiale? Tutti pronti a scannarsi? Insomma tutto già scritto?

Non lo crediamo, ma non basta, occorre capire, approfondire, distinguere nel nuovo scenario quanto vi è di costante e quanto di nuovo, quanto di retrivo e quanto di liberatorio.

Ed allora proviamo a distinguere.

L’odierna accelerazione inarrestabile della migrazione dei popoli, dei lavoratori, delle persone, delle famiglie, è l’esito, e la condizione, di un’accelerazione ancor più spaventosa dei processi di sviluppo dell’economia costruita su base “capitalistica” (usiamo questo termine senza alcuna nostalgia, ma non ne troviamo un altro altrettanto descrittivo della indubitabile predominanza del capitale finanziario quale effettivo fattore guida del mondo attuale). Ciò che però distingue i processi odierni non è soltanto l’inarrestabile potenza dissolutoria degli assetti preesistenti, la pervasività molecolare con cui si affermano in tutti i contesti (capitalismo di stato, società rurali ..), subordinando tutto e tutti al proprio ordine, quanto e soprattutto il muoversi dei nuovi soggetti dominanti (dagli hedge fund alle multinazionali) in un quadro di complessiva irresponsabilità riguardo alle istituzioni ed alla politica. Fino ad ancora pochi decenni fa, le pur gigantesche concentrazioni imprenditoriali e finanziarie trovavano nel politico nazionale il loro naturale interlocutore dialettico, si chiamassero Krupp in Germania, Mediobanca in Italia o Ford in USA.

Oggi non è più cosi, ed appare evidente allora l’inadeguatezza ormai insostenibile della cornice nazionale quale ambito entro cui finora abbiamo regolato le principali questioni: ambiente, energia, tecnologie, finanza, impresa, cultura, e quindi inevitabilmente società, politica istituzioni e mercato del lavoro.

Il mondo che si va costruendo giorno per giorno sotto i nostri occhi è un mondo sempre più unico, strettamente interconnesso, culturalmente omogeneo, perché l’economia mondiale di questo ha bisogno: un solo mercato dei denari, un solo mercato dei beni, un solo mercato dell’energia, un solo mercato del lavoro, sempre più velocemente mobilitabili dalla leggerezza dei bit, dall’ampiezza dei sistemi di trasporto, dalla deregulation sui processi produttivi e finanziari, dall’assenza di restrizioni agli scambi.

Questo è il mondo del “turbocapitalismo“, un mondo in cui i micromondi locali, nazioni – regioni della sviluppata ed ordinata Europa e lontane aree del terzo e quarto mondo, sono sempre più aggredite nella loro autonomia, incapaci di resistere, “smontate” nelle proprie componenti originarie e “rimontate” su assetti economico sociali più coerenti con  le sue regole.

Questo è il processo in atto e di qui non si tornerà indietro……….semmai a lato, come avvenne tra la prima e seconda guerra mondiale.

Tremonti, con “La paura e la Speranza” ha descritto a suo modo questo mondo, ne ha addebitato la responsabilità alla “sinistra mercatista”, ed ha indicato nella chiusura al nuovo, al diverso e soprattutto allo straniero “miscredente” la chiave di volta di una piattaforma di resistenza da destra all’internazionalismo del capitale. Il gioco è già riuscito una volta negli anni 20 e 30 del ‘900, perché non riprovarci?

Del resto, la Lega ha già provveduto da tempo a promuovere con successo il Sindacato di Territorio, e le premesse politico culturali di un clima di divisione etnica tra lavoratori: prima i “terun”, poi gli “extracomunitari” e domani chissà.

Cosa resta allora ad uno schieramento democratico e riformatore, se questo spazio è già occupato? Tutto lo spazio che si desidera, perché questo non è lo spazio di uno schieramento democratico e riformatore, e ancor di più perché questo è uno spazio del passato e non del futuro.

Lo spazio della sinistra sta tutto intero sul piano del riconoscimento su scala internazionale della parità universale dei diritti e della cittadinanza, della promozione di piattaforme giuridico – contrattuali internazionali comuni ai lavoratori sui diversi mercati del lavoro, del sostegno alle politiche soprannazionali di contrasto al degrado ambientale ed alla rapina energetica, della contestazione sociale (anche basata sul consumo consapevole) dello sfruttamento senza regole delle multinazionali, per la  creazione insomma di quelle condizioni di “mercato” che impediscano alle imprese di giocare sui diversi scacchieri locali alla ricerca sempre più affannosa ed irresponsabile del lavoratore meno tutelato, della finanza più oscura, dell’ambiente meno protetto.

In questa prospettiva, che non esiterei a chiamare di “internazionalismo necessario“, potrebbe essere aggredita la principale causa della divisione dei lavoratori su scala mondiale: l’asimmetria geografica dei diritti e delle regole dei diversi mercati del lavoro.

Riconoscere allora al lavoratore rumeno o cinese, che fa lo stesso lavoro del suo collega tedesco, un egual trattamento retributivo, ed un eguale portafoglio di diritti, non è solo un atto di giustizia, ma in concreto contribuisce ad eliminare la base materiale che porta molte imprese a spostare sedi produttive nei diversi siti, favorendo  una maggior stabilità produttiva, il  mantenimento del posto di lavoro, ed  impedendo il diffondersi di fenomeni di divisione ed avversione  culturale e sociale.

Alla politica il compito di trovare programmi, mediazioni, processi, attraverso cui avanzare verso questa direzione, opponendo all’internazionalismo affermato dal turbocapitalismo quello delle regole, dei diritti e della responsabilità sociale

E’ uno spazio enorme in cerca di un innovativo soggetto politico internazionale, o transnazionale, che oggi non esiste, o meglio che esiste in alcune deboli forme tramandate dal passato (internazionali socialista, ma anche popolare, e sindacale) ed in alcuni confusi movimenti anticipatori (noglobal).

Un Soggetto Politico che forse si potrà avvalere, nell’elaborare valori e nel promuovere diritti, non solo delle tradizionali lotte dei lavoratori, ma anche delle reti formali ed informali di cooperazione di persone, di gruppi, di partiti e di movimenti, e della potenza di poteri sociali diffusi ancora inesplorati nel loro potenziale, come quello dei consumatori.

E’ solo un sogno? Può essere, ma le favole moderne (c’era una volta l’internazionalismo …..) hanno contribuito a fare meno peggiore di quanto non sia effettivamente stato il mondo del ‘900, e forse potranno aiutarci a farne uno nuovo o semplicemente a mantenerlo vivo e vivibile.

Giuseppe Ucciero



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