26 giugno 2012

POLITICA, IPERPOLITICA E ANTIPOLITICA


Nel pieno vigore della “seconda repubblica” Giuseppe D’Avanzo scriveva: “la legge di immunità / impunità per Berlusconi non è un fiore nato dal deserto. È un pensiero di fondo di cui la cultura politica italiana non riesce a liberarsi. E non riuscirà mai a disfarsene, soprattutto nell’opposizione di sinistra, (…) senza ripensare con critica severità (…) a quella tentazione giacobina che l’ha affascinata fino a ieri. E che oggi, per mano della destra, diventa governo, metodo, cultura e addirittura legge” (La Repubblica, 26 giugno 2003). Tale concezione ha dunque dominato il “secolo breve” fin dal suo inizio, da quella “rivoluzione contro il Capitale” alla quale Gramsci anteponeva la presa egemonica delle “casematte” civili e culturali della società. Tuttavia nella fase della “prima repubblica” il primato del “totus politicus” risultò temperato dal carattere di massa dei maggiori partiti, dal legame con grandi formazioni sociali e culturali, sindacali e confessionali, garantito dal quadro (altrimenti detto “arco”) costituzionale.

A partire dagli anni ’90 invece il venir meno dei partiti di massa, l’affermarsi di leader (Fini, Bossi, Berlusconi) estranei all’arco costituzionale nonché l’espulsione delle “ideologie” dall’orizzonte dei nuovi partiti hanno portato al ripiegamento e distacco della politica corrente rispetto alla ricerca ideale, all’etica pubblica e spesso anche al semplice senso comune. Malgrado non fossero mancati per tempo i richiami a un rapporto proficuo con la cittadinanza attiva e riflessiva (per tutti l’invettiva di Nanni Moretti del 2002!) il sistema partitico si è raggrumato in “casta”, rinchiuso in una ristretta e soffocante tattica iperpolitica. Non stupisce allora che forme di “antipolitica” impegnata e militante nascano e crescano per reazione spontanea, per naturale resistenza rispetto al cortocircuito di un sistema chiuso autoreferenziale e autoalimentare.

Altro fenomeno è la disaffezione qualunquista e “apolitica”, la cui causa può essere rintracciata nell’offuscarsi della distinzione destra-sinistra, nella sostanziale omologazione del discorso in un indistinto “pensiero unico”. Secondo il politologo Carlo Galli destra e sinistra resistono ancora, per quanto a rischio di estinzione, sebbene entrambe alquanto variegate riconoscendosi 14 aggettivazioni della destra (conservatrice, autoritaria, liberista, organicista, ecc.) e ancor più 19 della sinistra (riformista, statalista, libertaria, pacifista, ecc.). Dunque il linguaggio politico e mediatico continua a dividersi per inerzia secondo la diade tradizionale. Ma qual è l’origine della distinzione tra “destra” e “sinistra” nella politica come nella cultura e nel costume? Tenuto conto che ancora al tempo della rivoluzione francese tale suddivisione non si usava: infatti i giacobini occupavano la parte alta dell’assemblea tanto da meritarsi l’appellativo di “montagnardi”.

Dovette trascorrere qualche decennio affinché il Filosofo classico tedesco lasciasse in eredità la fatidica sentenza: “ciò che è reale è razionale e ciò che è razionale è reale”. Proposizione in apparenza perfettamente simmetrica. Tuttavia i giovani allievi la superarono dialetticamente e proprio riguardo la sua interpretazione si divisero appunto tra “destra” e “sinistra” hegeliane. La differenza risiede sul dove mettere l’accento: se questo è posto sul “reale” l’esistente è comunque giustificato (il “socialismo reale” fu l’unico razionale finché non crollò e cessò di essere reale). Se l’accento è posto invece sul “razionale” l’esistente perde realtà fino a che non si adegui, o almeno si avvicini, al razionale (“il comunismo è l’abolizione dello stato di cose presente”). Così da Giorgio W. F. Hegel a Giorgio Gaber, passando per Carlo Marx e Norberto Bobbio, destra e sinistra prendono forma ed entrano stabilmente nel linguaggio non solo politico.

Tuttavia oggi, di fronte alle sfide della globalizzazione, le parti appaiono talvolta invertite: una sinistra più o meno ferma nel difendere valori e diritti acquisiti, e invece una destra orientata al cambiamento e all’innovazione, incline essa questa volta ad “abolire lo stato di cose presente” ovvero lo stato sociale e l’assetto democratico costituito. Viene allora capovolta l’interpretazione originale: di destra accettare e agevolare il “capitalismo reale” anche quando questi tende a evidenti aberrazioni e degenerazioni in termini di ingiustizia sociale, squilibri geo-politici, derive speculative, disastri ambientali; invece di sinistra la critica verso questa realtà e lo sforzo per aspirare a un modello tendenzialmente armonico, equo e funzionale.

Ma si sa – mala tempora currunt – che pensare a forme e temi della politica basati su semplici valori quali la coerenza, la correttezza, il disinteresse, la logica e talvolta il solo buon senso espone allo smaliziato biasimo di utopismo e donchisciottismo (il donabbondismo è invece ampiamente tollerato e apprezzato). Per non parlare poi dei valori alti: libertà e uguaglianza dei cittadini, diritti e doveri civili etico – sociali economici e politici; laddove il “modello” è iscritto da oltre sessant’anni in cima alle leggi e alle istituzioni democratiche. È la Costituzione di questa Repubblica: splendida utopia se presa sul serio nei valori e nei principi fondamentali.

Se dunque la Costituzione fosse considerata non solo oggetto di una pur doverosa difesa formale bensì un modello e una guida per pensare un Paese e un Mondo più ragionevoli, si porrebbero le basi per un capovolgimento dell’egemonia della destra e – sarebbe ora – un’inversione del pendolo della cronistoria, se non della storia. Dunque una “difesa attiva” della Costituzione quale ad esempio ripropose Giuseppe Dossetti, già vegliardo e da tempo ritirato dall’attività politica, nel culmine della crisi della “prima repubblica”, nei primi anni ’90. Purtroppo vanamente, visti gli esiti. Ma sarebbe possibile riprovare di nuovo al tramonto di questa “seconda” repubblica, forse solo una e mezza?

 

Valentino Ballabio

 



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