26 giugno 2012

Scrivono vari 27.06.2012


Scrive Luigi Caroli a Luca Beltrami Gadola – Definire eccellente il tuo articolo sugli appalti pubblici è poco. Hai fotografato perfettamente un andazzo cui nessuno – proprio nessuno – vuol porre rimedio. I progetti sono malfatti e approssimativi… ad arte. Perchè – nel tortuoso tragitto – ciascuno possa ritagliarsi, indisturbato e inattaccabile, la sua fettina (o fettona). Se la Corte dei Conti ha ipotizzato in 70 miliardi la correzione annua, almeno 15 sono incassati da irreprensibili e (a sragione) stimati milanesi. Perchè non ce lo diciamo: “i corrotti sono fra di noi“? Non è solo Roma a essere ladrona. Funzionari, tecnici, progettisti e controllori che nessuno può o vuole controllare. Né prima, né durante, né dopo. Quanto più si frequentano ambienti di elevato livello – dalla Scala in giù – tanto più è probabile finire di trovarsi seduti a tavola con sorridenti ed eleganti signori… corrotti. Tu parli del “nuovo” sistema arancione. Ci speri ancora? Io ho smesso di farlo, ché alcune cesure si fanno subito o non si fanno più. Atm, mm, verde pubblico, cimiteri, arredo urbano, strade, annonaria. Niente è cambiato. Le spese sono rimaste alte e, quel che è peggio, senza controllo.

 

Scrive Ferdinando Mandara a Mario De Gaspari – L’articolo di Mario De Gaspari espone molto lucidamente – secondo il mio parere di profano della materia – le difficoltà, per il prestatore di ultima istanza, di praticare una “giusta” terapia: se si interviene troppo o troppo presto, non si correggono le pratiche errate; se si interviene troppo poco o troppo tardi, la crisi non si risolve. Non so però quanto su ArcipelagoMilano ci si sia interrogati anche sulle cause della crisi: in base al principio che sarebbe meglio prevenire che curare. Tanto più che la cura risulta alquanto difficile e molto costosa. E a pagarla sono certamente i più deboli, quasi mai qualcuno di quelli che l’hanno causata.

Di Marx ho letto solo il “Manifesto del Partito Comunista” al liceo. Ma recentemente mi è capitato di leggere, in una citazione, un suo brano di poche righe in cui sostiene che quando si manifestano le crisi di sovraproduzione, inevitabili nel sistema capitalista, il capitale cerca un rimedio e una alternativa di profitto nella finanza. Mi sembra che 150 anni dopo questa interpretazione sia tuttora realistica: il sistema occidentale è impostato sul produrre sempre più merci (utili o meno) a costi unitari sempre minori, cioè impiegando meno persone grazie alla tecnologia e/o alla delocalizzazione; con il che si riduce il potere d’acquisto e le merci finirebbero per restare invendute malgrado gli enormi investimenti pubblicitari.

Per mantenere elevati i consumi (oltre alla guerra, non sempre praticabile dappertutto) non resta che incoraggiare il debito, pubblico e privato. Non a caso in molte nazioni occidentali la somma dei due debiti supera il 200% del PIL. Ma il gioco finanziario non può durare all’infinito (come d’altronde non potrebbe durare all’infinito la crescita della produzione, dell’uso delle materie prime e la produzione di rifiuti).

Se non si mette in chiaro che la malattia è congenita al sistema, e non si trova il modo di cambiarlo (c’è chi ci pensa da tempo), non resta che illudersi di azzeccare la dose giusta nelle terapie: tra quella troppo leggera e quindi inefficace e la dose da cavallo che rischia di ammazzare il malato. Fino alla crisi successiva, inevitabilmente molto più grave: perché la tecnologia e la fantasia finanziaria corrono sempre più veloci.

 



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