19 giugno 2012

BILANCIO: TAGLIARE LE SPESE RESTANDO A SINISTRA


Ha molte ragioni Alessandro De Nicola nel suo articolo di alcuni giorni fa su Repubblica – Milano nel lamentarsi della sostanziale illeggibilità dei documenti di bilancio senza l’aiuto di qualche chierico della contabilità. Purtroppo tra i risultati ottenuti dalla Giunta Pisapia non c’è la corretta definizione del ruolo della Ragioneria Comunale, che continua a ritenersi in dovere di gestire i conti del Comune di Milano utilizzando un “latinorum” perfino irritante nella sua scarsa utilità gestionale e politica, cercando al contempo di dettare i tempi della politica in una mal riuscita imitazione del governo Monti, dove per sicurezza non si è nominato nemmeno il ministro dell’economia per confermare anche formalmente il potere assoluto dei direttori generali.

Gli elaborati di bilancio, se non sorretti da una riclassificazione da “controllo di gestione” sfortunatamente non fornita all’articolista, inducono spesso in errori sostanziali a fronte di formali quadrature. Si finisce per dire, per esempio, che le spese correnti sono aumentate, quando sono invece sia pur leggermente diminuite (una novantina di milioni di euro, poco più del 2%); oppure si parla di “sestuplicazione” delle spese per enti e partecipate, quando si tratta invece di interventi di risanamento in spesa corrente necessari per poter procedere a una di quelle alienazioni che tanto entusiasmano proprio il De Nicola, nel caso specifico un terzo delle aree Sogemi di via Lombroso.

Ma al di là della disponibilità di dati e letture corrette – materie sulla quale purtroppo come Amministrazione di Milano non possiamo certo ergerci a maestri – l’intera analisi di Alessandro De Nicola è condotta per misurare l’efficacia della “spending review” in termini di “tagli alla spesa pubblica”. L’intervento di revisione delle spese detto “spending review” fa parte delle famiglie di tecniche di revisione del budget di spesa, come “reinventing government” o “budget a base zero”. La caratteristica comune di queste tecniche è quella di procedere a una completa “reingegnerizzazione” dei processi di decisione – pianificazione – erogazione della spesa e del servizio non basandosi sulla spesa storica ma ripartendo da una “base zero” sia in termini economici che organizzativi.

Nella “vulgata” di questi mesi il processo di “spending review” – che richiede un periodo molto lungo di lavoro e implementazione; un team di persone dedicate a tempo pieno e test di verifica e fattibilità piuttosto complessi, è stato identificato con il “taglio della spesa”, fosse esso selettivo o lineare. La procedura di “taglio della spesa” si attua in periodi di emergenza e consiste nella “semplice” eliminazione di una spesa o un servizio, non nella sua riorganizzazione, i cui effetti possono essere duraturi nel tempo, come ovvio, solo se tale eliminazione viene confermata in via definitiva.

L’entità dei tagli operati per il bilancio 2011 è stata di 110 milioni di euro, di cui circa 50- 55 milioni “strutturali”, vale a dire destinati ad avere un effetto stabile di riduzione sul successivo triennio. Nel bilancio previsionale 2012 le riduzioni di spesa operate sono ancora in massima parte derivanti da operazioni di taglio, con le quali si ritiene di aver sostanzialmente esaurito l’area aggredibile con manovra “semplice” di taglio di spesa. Le previsioni di riduzioni significative di “spending review” dei prossimi anni ammontanti a oltre 100 milioni di euro potranno scaturire solo da un processo di revisione strutturato, che non può che essere condotto con l’ausilio di un nucleo dedicato e specialistico che oggi ancora non c’è e che riguarda la struttura dirigenziale e non quella politica.

Ancora una volta, al di là delle valutazioni sul metodo di revisione della spesa, occorre dire con chiarezza che l’obiettivo dell’Amministrazione di Milano non è affatto coincidente con il pensiero “mainstream” liberista che considera la spesa pubblica il male assoluto e la gestione privatistica la panacea. Milano viene da diciassette anni di liberismo parolaio e privatizzazioni senza cervello come quella di AEM, che ha distrutto quattro quinti del valore iniziale, o di Metroweb, capolavoro che si è concluso addirittura con una perdita contabile dopo aver messo sottosopra le strade di Milano per cinque anni.

E ancora, il Comune deve ora gestirsi la partita dei Fondi Immobiliari che costano come una consulenza di Sai Baba, non hanno venduto nemmeno uno scantinato e torneranno indietro fra qualche anno pretendendo per contratto il rimborso delle somme già erogate e spese dall’Amministrazione Moratti. Per non parlare dei contratti di assegnazione di strutture di Milano Sport ai privati, regolarmente oggetto di indagine della giustizia ordinaria e spesso di quella penale o dello stadio di San Siro “affittato” al Consorzio Milan-Inter per una cifra modestissima (3,5 milioni di euro all’anno più altrettanti di “investimenti sulla struttura”, nei quali sono comprese le poltroncine e il video personalizzato per i giocatori negli spogliatoi).

Se è vero che gli sprechi ci sono e devono essere tagliati ed evitati al più presto (l’Amministrazione in un anno ha eliminato stabilmente spese per 60 milioni di euro, l’8% delle “disponibili”), non bisogna fare di tutte le erbe un fascio. L’assunzione di 300 vigili urbani e 150 maestre d’asilo che De Nicola avrebbe volentieri rinviato rappresentano invece una priorità per chi vuole garantire sicurezza e assistenza alla famiglia, così come l’aumento degli stanziamenti ai Consigli di Zona non sono “prebende per la casta” ma la ricollocazione di voci di bilancio esistenti in linea con il progetto del “Comune decentrato” che è cardine del programma di questa Giunta.

Non vi è dubbio che il sistema del welfare comunale e il modello di “socialismo municipale” del Novecento deve essere profondamente rivisto, ma non esiste certo un solo modo e un solo “verbo” per farlo come vogliono farci credere.

La Giunta Pisapia ha scelto una strada alternativa a quella liberista e per questo non ci si può attendere che critiche da quel versante politico e ideologico: varrebbe forse la pena, una volta tanto, fare un’analisi seria di molti anni di politica “liberista” negli enti locali, a Milano e in Italia ma anche all’estero, magari a Vienna, dove stanno disperatamente tentando di ricomprare le linee di metropolitana vendute oppure in una città dell’Inghilterra, dove prendere un mezzo di trasporto è un sogno in oltre il sessanta per cento del territorio urbanizzato!

La spesa pubblica deve essere adeguatamente finanziata e le tasse e imposte comunali sono per questo necessarie. È facile polemica parlare di incrementi a due cifre percentuali parlando di imposte comunali ferme da dieci anni e che solo in termini di inflazione hanno perso oltre il 20% del loro valore iniziale, a maggior ragione in un anno nel quale le già altissime tasse nazionali sono state alzate. E non sarebbe il caso di ricordare che le politiche di “taglio delle tasse” del mondo anglosassone, dall’Irlanda agli USA di Bush, non solo non hanno evitato la crisi, ma l’hanno provocata?

Sarebbe di qualche utilità sapere, per esempio, che il livello di tassazione negli USA per redditi sopra il milione di dollari è sempre stato oltre il 58%, arrivando anche al 73%, tranne in due periodi: nel 1930-31, quando il presidente Hoover reagì al crollo di Wall Street tagliando spesa pubblica e tasse, innestando la Grande Depressione; e nel 2004-2008, quando il presidente, George Bush trasformò l’avanzo di bilancio e zero debito eredità di Clinton nel buco di bilancio in valore assoluto più grande che la storia ricordi, mettendo le basi per la crisi attuale che è stata generata dal debito privato in quei Paesi e non dal debito pubblico dei paesi dell’Europa del Sud.

Ma sono certo che anche con De Nicola discutendo sulle questioni reali non faticheremmo a trovare una valutazione comune non così critica e affrettata come quella iniziale, magari ricordando il testo a lui caro de “La ricchezza delle nazioni” di Adam Smith, nella parte nella quale assegna alla politica economica il ruolo di “assicurare primariamente alla popolazione redditi abbondanti o mezzi di sussistenza” e, in secondo luogo, “fornire allo Stato o alla comunità entrate sufficienti per i pubblici servizi”.

Occorre però parlare un linguaggio di verità e partecipazione (che non vuol dire accondiscendenza), spiegando la situazione e illustrando le scelte, senza nascondersi dietro facile slogan o indulgere alla demagogia deteriore.

 

Franco D’Alfonso

 

 



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