19 giugno 2012
Quando viene proposta la realizzazione di una nuova infrastruttura, ma anche l’introduzione di una nuova politica, è normale che si generino dei conflitti. I progetti e le politiche trovano degli oppositori per il semplice motivo che modificano lo stato di fatto, ed è normale che alcuni si oppongano al cambiamento. Ma non sono solo i conservatori amanti dello status quo a contestare politiche e infrastrutture. Proprio perché cambiano lo stato fatto di fatto questi interventi generano dei vantaggi e degli svantaggi: nella maggior parte dei casi i soggetti svantaggiati e i soggetti avvantaggiati dall’intervento non coincidono.
Vi sono dei soggetti che traggono benefici, a volte anche consistenti dall’attuazione di una politica o dalla realizzazione di una infrastruttura e altri che ne subiscono i costi. Questo è particolarmente evidente per gran parte delle infrastrutture di trasporto. Chi risiede nelle vicinanze di infrastrutture di trasporto spesso ne subisce i costi in termini di inquinamento acustico, atmosferico, congestione, impatto visivo etc. E in molti casi non è il primo beneficiario dell’intervento ma al massimo un utente marginale: la ferrovia, la strada l’aeroporto sono utilizzati da altri utenti che non risiedono necessariamente nell’area. In parte questo vale anche per le politiche, ma nel caso delle infrastrutture il problema è ancora più rilevante dato il carattere di irreversibilità dell’intervento.
La presenza di questi conflitti, che nel campo dei trasporti è divenuta una costante, viene spesso considerata unicamente come un elemento negativo, che rallenta la realizzazione delle opere necessarie allo sviluppo e alla crescita del paese, della città del quartiere. I conflitti paralizzano il sistema decisionale, allungano all’infinito i tempi di realizzazione delle opere finendo con l’aumentare a dismisura i costi di realizzazione. Si citano i fenomeni NIMBY (Not In My Back Yard, non nel mio cortile) per dimostrare che gli oppositori hanno a cuore il loro bene privato e non il bene comune, o BANANA (Build Absolute Nothing Anywhere Near Anyone) per sottolineare l’atteggiamento conservatore e antiprogressista dei movimenti di opposizione. Ma forse non è così semplice.
Si sostiene e a ragione che occorre far prevalere il bene comune anche a scapito del bene privato. Come è stato risposto alle petizioni contro l’attuazione dell’Area C a Milano, la salute pubblica viene prima dell’interesse privato (1). Si può chiedere ai cittadini di subire un danno in nome di un bene comune, ma questo bene comune deve essere dimostrato e misurato in modo trasparente. Non solo, si deve anche dimostrare che il suo valore “sociale” è superiore ai costi subiti dai danneggiati. Nessuno è disposto ad accettare di subire un danno per un’opera inutile, per un “male comune”. Ben venga allora il conflitto che costringe a verificare il valore sociale dei progetti e delle politiche, ben vengano i conflitti che portano a più trasparenza.
È qui infatti che il conflitto può acquisire una valenza estremamente positiva: se obbliga i proponenti di una infrastruttura o di una politica a esplicitare in modo trasparente quali sono i vantaggi, e quali costi, dell’intervento proposto. Se costringe i proponenti a esplicitare le valutazioni alla base della scelta del progetto. In molti casi, la maggioranza direi, queste valutazioni non sono rese pubbliche, non sono messe a disposizione per generici motivi di confidenzialità. Invece delle valutazioni, tecniche, economiche ambientali che hanno portato a proporre un intervento si deve poter discutere, e più le parti coinvolte sono informate, minori sono le asimmetrie, maggiori sono le possibilità che dal confronto si esca con un progetto, una politica migliore.
Certo questo richiede che i momenti di confronto siano parte del processo decisionale e avvengano il più presto possibile, quando è ancora possibile modificare il progetto o la politica o scegliere di non realizzarla. E soprattutto che il processo di decisione sia trasparente e le valutazioni credibili. Ma questo non è sufficiente, le valutazioni dovrebbero anche evidenziare in modo chiaro chi paga e chi guadagna da un progetto, e quanto paga chi paga. E se possibile compensare chi è danneggiato in una misura congrua con il danno subito. Compensarlo non comperarne il consenso.
I conflitti diventano dannosi quando le parti non sono sufficientemente informate, le informazioni arrivano tardi, ma soprattutto quando il superiore bene comune non è così evidente. È allora che si innescano meccanismi non di compensazione dei danneggiati ma di cooptazione degli oppositori, con promesse di opere aggiuntive che vanno ad accrescere i costi di interventi già discutibili. Ben vengano allora i conflitti se portano a decisioni migliori, e non solo alla ricerca di un maggiore consenso (2).
Per tornare all’esempio dell’Area C a Milano, penso che il confronto con gli oppositori sia servito anche a chiarire meglio lo scopo della tassazione anche a chi non era pienamente convinto, e credo abbia costretto l’amministrazione a esplicitare meglio gli obiettivi, a fornire maggiori garanzie sulle politiche di compensazione dei danneggiati (migliori trasporti pubblici, percorsi ciclopedonali). Certo non ha convinto tutti, una parte dei cittadini è rimasta contraria. Ma non si deve essere necessariamente tutti favorevoli, i conflitti servono anche a questo, non solo a rendere meno opaco il processo di decisione, non solo a pesare danni e vantaggi e a cercare modi per compensare i danni, ma anche a riconoscere che ci sono conflitti non riconciliabili perché riconducibili a diverse visioni della politica dei trasporti, ma non solo.
Silvia Maffii
(1) Anche se l’Area C ha più a che fare con la congestione che con la salute dei cittadini
(2) O ancora peggio a quei fenomeni di free riding che hanno caratterizzato molti grandi investimenti, fenomeno pervasivo quando esiste un diritto di veto, si pensi alle vicende legate alle stazioni dell’Alta Velocità