22 maggio 2012

DOMENICA A MACAO. “LIBERTÀ È PARTECIPAZIONE”?


Dalla torre Galfa a palazzo Citterio, passando per il presidio in via Galvani, Macao si autodefinisce non un luogo, bensì un progetto. E non è neanche detto che le persone che ne fanno parte, i “lavoratori dell’arte”, abbiano bisogno per ora di un posto fisico dove stare. Cercano di spiegare soprattutto questo, gli occupanti, in una domenica di maggio tutta da organizzare e definire, pomeriggio di voci che si rincorrono tra un cortile e grandi stanze che, nonostante tutto, trasmettono ancora un senso di vuoto. Con il passare dei giorni il tema degli spazi – da abitare, da vivere soprattutto “da salvare” – ha scavalcato per importanza tutti gli altri; passano in secondo piano, per il momento e per una deliberata scelta di priorità, altri aspetti che avevano in un primo tempo catalizzato l’attenzione sul movimento.

L’ex Ansaldo polo della cultura? A Macao sono contentissimi di avere sollevato un problema e accelerato un processo, ma questo non li riguarda così da vicino. Vogliono altro. Vogliono ora farsi interpreti della «cittadinanza attiva» che pone l’accento su un patrimonio fatto di luoghi trascurati e abbandonati per anni, per ragioni economiche che nascondono contraddizioni aperte, speculazioni edilizie e finanziarie, interessi di pochi. Occupare un palazzo del ‘700 in centro significa quindi tenere i riflettori puntati su questa contraddizione, viva e stridente, così che da Milano il discorso possa allargarsi al resto dell’Italia, coinvolgendo tanto il pubblico quanto il privato. Questo il racconto, queste le spiegazioni di un gesto emblematico, conseguenza di risposte che non arrivano da chi dovrebbe darle.

Tutto chiaro, quindi, tranne la soluzione che Macao propone. Si occupa, intanto, nessuno dice fino a quando, e anche le motivazioni si disperdono, si fanno fumose nei giorni e nelle azioni che sembrano dettate più dal caso che da un programma. I tavoli di lavoro lavorano, nei locali del palazzo che non cadono proprio a pezzi; e sono previste lezioni, gruppi tematici, si vocifera di ospiti illustri in arrivo. Eppure non si riesce a capire come tutto questo potrà contribuire a cambiare lo stato delle cose.

Tra i ragazzi che parlano a piccoli gruppi, o seduti in circolo, serpeggia in continuazione una parola usata e abusata a dismisura in quest’ultimo anno, al punto da perdere quasi di senso: partecipazione. Dalle Officine per la città alla campagna elettorale che ha portato all’elezione di Pisapia, i metodi e i processi partecipativi sono centrali – ossessivamente centrali – in tutte le persone che si sono impegnate e si impegnano nel progetto: concentrarsi su temi e percorsi condivisi per poter contribuire all’iter decisionale dell’amministrazione e interagire in modo attivo con le istituzioni. La democrazia partecipata non si improvvisa, si studia, si sperimenta. Il percorso dei ComitatixMilano in questi ultimi mesi, tra alti e bassi, ne è una prova, riproduce le tormentate tappe di avvicinamento.

Sorge però un dubbio. I cittadini desiderano veramente diventare attivi? Intendono per partecipazione capire e condividere a fondo un comune disegno di città o semplicemente acquisire il diritto di incidere a proprio favore su una realtà rispetto alla quale continuano comunque a essere estranei? Viene inoltre da chiedersi se un cittadino distante dalla politica possa sentirsi effettivamente rappresentato da un movimento o da un gruppo che, con il proprio stile e metodo, promuove la partecipazione. È qualcosa che interessa veramente, quanto, in che modo? E, pur supposto quest’interesse, non è detto affatto che le priorità siano per tutti le stesse. Magari chi abita in periferia trova del tutto secondario recuperare e ristrutturare spazi in centro, e avrebbe bisogno di un centro di aggregazione per anziani (o semplicemente un negozio sotto casa) anziché di un polo della cultura.

Intanto, se la democrazia partecipata resta una parola, un’idea, al più un progetto sulla carta, le responsabilità sono da dividere equamente: tra l’amministrazione che ancora non l’ha ritenuta così prioritaria per attuare programmi e raggiungere obiettivi; e i Comitati, attivi sul territorio, che si sono arenati negli ultimi mesi a dibattere sempre più sul “come” perdendo di vista il “che cosa”, affievolendo la capacità di aggregare e coinvolgere nuove forze. E adesso non è certo dalla parte della ragione Macao, che per superare l’impasse ha scelto la via dello scossone forte, la strada dell’illegalità per ottenere risposte. Tra i ragazzi del collettivo non pochi hanno vissuto lo scorso anno l’esperienza delle Officine per la città che hanno ritenuto evidentemente poco efficace e produttiva; l’impressione è a Macao ci siano tante anime, non sempre conciliabili tra loro, e sicuramente non su tutto.

Fatto sta che mentre sulla democrazia partecipata ci si dibatte e confronta in varie sedi, da mesi e mesi, parlando delle sue possibilità e delle sue regole, tutte da costruire… in nome di intenti (solo) apparentemente simili arrivano le occupazioni del Galfa e di Brera che forzano il percorso, rischiando di deviarlo. Per cambiare le cose c’è chi sceglie di non stare più dentro ma fuori. Perché – come spiega Giulia del collettivo di Macao, gruppo comunicazione – questo è l’unico modo per essere ascoltati, per ottenere qualche risultato. E se un osservatore esterno fa inevitabilmente notare «siete nell’illegalità» la risposta rimbalza immediata, anche questa inevitabile. «È illegale chi occupa un edificio abbandonato o chi lo abbandona per anni all’incuria e al degrado, privandone la città e i cittadini?» Dove stia la ragione non è poi così scontato.

A rifletterci bene, al di là della simpatia e dell’entusiasmo che Macao può suscitare, non è privo di arroganza questo ergersi in modo tanto arbitrario a difensori di un diritto, o anche soltanto di un’idea. C’è arroganza e un certo semplicismo, nel pensare, da una prospettiva così parziale, di potere interpretare i bisogni e le esigenze della collettività. Che nella maggior parte dei casi, inutile negarlo, degli edifici abbandonati non si preoccupa affatto, che a partecipare non è pronta e ancora nella vita quotidiana si sofferma soprattutto, se non esclusivamente, sui propri interessi; probabilmente per ristrutturare palazzo Citterio non metterebbe un centesimo dei propri soldi e un minuto del proprio tempo, neanche se ce l’avesse sotto casa. Quando i ragazzi riuniti in assemblea sostengono che deve essere la cittadinanza a decidere di che cosa ha bisogno non si capisce fino in fondo se intendano per cittadinanza l’uomo della strada o il vicino di casa, o, in fondo, quelli che pensano e vivono come loro. D’altra parte, la delega a farsi interpreti delle esigenze dei milanesi non l’hanno mai avuta; chi amministra la città sì, invece, piaccia o non piaccia.

In attesa dei prossimi eventi rimane un punto interrogativo: se piantare le tende in un cortile di Brera sia vera partecipazione.

 

Eleonora Poli

 



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