1 maggio 2012

IL PD, I CITTADINI E I SOLDI


Domenica 21 aprile, Rosy Bindi ha ragionato con la platea della Conferenza Programmatica del PD a Milano su molte cose. Tra queste sul finanziamento pubblico ai partiti, insomma dei soldi. Si era curiosi, ma alla fine non tutti soddisfatti, delle ragioni in favore del sì presentate da un’esponente pur tanto autorevole e specchiata.

In effetti, qualche giorno dopo il PD, proponendo di dimezzare i rimborsi, ha dato argomenti ai sostenitori del no e a quelli del sì: molti meno soldi certo, ma lasciando in vita il rimborso elettorale ai partiti. Resta però alla fine un senso di ambiguità e di irrisolto: se infatti, di quei soldi vi era bisogno prima, non si capisce per quale motivo non ve ne sia più ora: o si sbagliava prima nell’accettarli, o si sbaglia adesso nel dimezzarli.

Si dice chela Politicacosta e che quindi, senza finanziamento pubblico dei partiti, è destinata a prevalere la parte politica che più facilmente ne dispone. Chela Politicacosti è certo un fatto. Ma che il finanziamento pubblico sia l’unica modalità attraverso cui reperire le risorse in un gioco che preservi l’equilibrio delle forze in campo non è altrettanto incontestabile.

Ma andiamo per gradi, e fissiamo un punto che per tutti i partiti, ma soprattutto per il centrosinistra, dovrebbe essere incontrovertibile e cioè che la volontà del popolo sovrano deve essere rispettata, specie quando produce effetti sgradevoli per i suoi destinatari, sennò non si capisce dove stia il senso di una regola, specie se costituzionale.

Su questo punto, il popolo italiano si è già espresso con grande chiarezza e da quel momento tutti i tentativi, ancorché riusciti materialmente, di reintrodurre il pagamento a carico della collettività di somme di denaro a favore della politica, hanno un che di surrettizio. Oggi la politica non si finanzia più, formalmente, come “budget per la sua azione ordinaria”, ma come “rimborso per le occasionali” spese elettorali. L’escamotage faticosamente costruito è la prova provata della irriducibilità del sistema dei partiti, proprio come sistema, a fare propria senza riserve la decisione popolare: a fronte di una spesa per 100, la media delle spese elettorali certificate si aggira attorno al 20%. Evidentemente l’80% residuo va altrove, nella migliore delle ipotesi a sostenere la struttura politica permanente, nel peggiore raggiri e intrallazzi ahimè bipartisan.

È accettabile questo? È accettabile la rottura, nella relazione tra cittadino contribuente e partito percettore di contributi, dello stesso presupposto di buona fede che ne dovrebbe ispirare i rapporti? Si può invocare a scusante lo stato di necessità o di minorità di fronte alla strapotenza finanziaria dell’avversario? Obtorto collo, anche i più strenui sostenitori dell’attuale sistema condividono nelle segrete stanze queste elementari considerazioni, salvo riprendere il tema irrisolvibile dell’onerosità della politica, e la necessità vitale, specie a sinistra, di contare sulle risorse pubbliche per contrastare le plutocrazie del campo avverso.

Dunque, rieccoci al punto: la politica costa, specie per chi non ha soldi. L’intervento del pubblico sarebbe necessario per mantenere le condizioni di equità su di un mercato, quello della politica, dove competono soggetti evidentemente squilibrati quanto a risorse. È accettabile questo punto di vista? È fondato non nelle sue premesse ma nelle sue conseguenze? E coglie poi il punto essenziale su cui oggi si gioca la competizione elettorale?

Guardiamo ai fatti, o meglio ai numeri, e stiamo pure nella nostra modesta arena locale. Quanti milioni ha speso Letizia Moratti, quanti Giuliano Pisapia e com’è finita? Ragionamento banale, qualcuno dirà, ma la sua elementarità logica definisce con chiarezza il concetto basico per cui la potenza finanziaria non è di per sé garanzia di successo in politica.

Vi è qui un’irriducibilità della politica alle ragioni del denaro che la connota come ambito specifico della società e che ci fa comprendere come, nella sua natura più profonda, la politica corrisponda a bisogni reali che la più possente e sofisticata campagna di comunicazione non riesce a manipolare sistematicamente. E d’altro lato, chiediamoci se in realtà lo squilibrio del sistema possa essere arginato meglio aumentando le risorse pubbliche a tutti i partiti, e quindi anche a quelli più ricchi, o se non sia più efficace una regolazione dei budget e dell’uso degli spazi sui mezzi di comunicazione.

Ma vi è qualcosa d’altro, e se si vuole di più inquietante, nella dipendenza dei partiti e specie del centrosinistra, proprio per la sua natura democratica, dalla mammella pubblica. Se il Partito è un momento associativo di persone libere che si prefiggono di contribuire al benessere generale, se insomma la loro ragion d’essere, diremmo la ragione sociale (la ditta per Bersani), è la capacità di unirsi e di unire tante altre persone su di un piede di parità, come non vedere che proprio il chiedere e il dare qualcosa di materialmente proprio come il denaro (oltre che il tempo e la passione) è esattamente la cifra che distingue un tale partito da un’accolita di prezzolati e di interessati?

La politica come atto gratuito dirada la selva degli opportunisti e dei carrieristi e la politica come atto di liberalità finanziaria è manifestazione concreta della propria idealità. Chiedere soldi implica la dichiarazione degli obiettivi, il darli la condivisione, il rendicontarli il dare conto dei risultati. L’indebolirsi di questo nesso è causa ed effetto dell’indebolimento complessivo delle organizzazioni politiche come momenti associativi ispirati dal concetto di bene pubblico. La trasparenza del sostegno economico è segno e tratto costitutivo della buona relazione politica e di cittadinanza.

Ma il “tesoriere” scuote di nuovo la testa e dice che tutta questa è letteratura e chiede dove mai si potranno comunque i soldi necessari? Anche qui i conti son facili per chi vuole, se davvero vuole, scuotersi dalla sua condizione “parassitaria”. Quanti sono gli elettori PD a Milano? Circa 180.000, e se ciascuno di questi versasse 3 euro, non disporremmo di 540.000 euro? Banale? Forse sì, ma impossibile no di certo, a condizione che la questione del finanziamento ritorni a essere il segno di un’appartenenza e di una condivisione, praticabile anche perché chiaramente sostenibile: 3 euro l’anno sono neppure un centesimo al giorno!

Per non dire delle mille e una iniziative con cui un popolo, come è quello democratico, può sostenere, se interpellato a modo: guardiamo alle lezioni di stile e di metodo che vengono dal no profit, senza scomodare il mito obamiano, guardiamo ai network 2.0. e soprattutto guardiamo alla città, ai mille luoghi in cui una presenza politica, nel momento in cui chiede soldi, è costretta a spiegare il perché e il come al singolo cittadino a cui si rivolge e questa è Politica.

Al contrario, se chiedendo soldi si trovano visi chiusi e parole dure, non è allora il segnale più esatto di un problema non più rimandabile del rapporto tra politica e cittadini, un segnale che perderemmo di vista se il 27 del mese, e tutti i mesi, arrivasse la mancetta statale, a certificazione di un distacco ormai divenuto malattia cronica e mortale della politica.

La deriva parastatale della Politica, quell’argent de poche quotidiano che fluisce ininterrottamente nella casse dei partiti, è divenuto ormai intollerabile agli occhi di un Paese che stenta a trovare nel comportamento della sua classe politica non tanto la correttezza delle proposte quanto la condivisione dei sacrifici, e alimenta il crescente fiato dell’Antipolitica.

Il PD che sente il problema, che certo non è né ricco né disinvolto, almeno fino a prova contraria, deve interrogarsi radicalmente non solo sulla quantità ma anche sulla fondatezza del rimborso elettorale e quanto prima lo farà tanto meglio sarà.

Torniamo ai fondamentali, alla trasparenza di una relazione economica volontaria tra cittadino e partito, dissecchiamo gli stagni dove allignano le biografie dei “politici” che fanno dello stipendio l’obiettivo vero e irrinunciabile del loro agire, rispettiamo la volontà del popolo italiano, ritroviamola Politica.

 

Giuseppe Ucciero

 

 



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