1 maggio 2012

E ADESSO POVER’UOMO? IL LEGHISMO AL BIVIO


Visto che ce ne siamo occupati in tempi, come si usa dire, non sospetti (sospetti cioè di essere influenzati dalle vicende di corruttela emerse dalle brume del bosino) possiamo riprendere il discorso non soltanto sulla Lega, intesa come quel partito – che i suoi dirigenti continuano a chiamare “movimento” – fondato e portato a buoni successi elettorali da Umberto Bossi da Gemonio – ma sul “leghismo” inteso come un coacervo di pulsioni, tensioni, aspirazioni e azioni e organizzazioni non facilmente definibili. Una nuvola oggi percorsa da forze centrifughe molto più forti di quelle che caratterizzano i soggetti politici cui gli studiosi hanno dato il nome comodo, ma forse al fondo anche obnubilante, di movimento. Nella fretta del profluvio dei commenti giornalisti di questi giorni non si è abbastanza distinto, io credo, tra le due realtà.

La Lega Nord mi sembra colpita in modo difficilmente rimediabile: lo sperone degli scandali ha tagliato il suo scafo sotto il pelo dell’acqua. La forza della Lega Nord, sia nell’immaginario collettivo che nella mente dei suoi militanti, era la sua “diversità” basata su tre capisaldi: il federalismo, il “celodurismo” e il “celopurismo”. Il federalismo era la carota che per un periodo molto lungo è stata fatta dondolare sotto il naso di militanti ed elettori per giustificare ogni tipo di decisione politica, in particolare l’alleanza con Berlusconi, in vista di un risultato futuro. Come tutti i movimenti avventisti, la metanoia attesa, che sia il regno dei cieli in terra o la società senza sfruttamento, o nel caso il federalismo, inteso come l’essere “padroni in casa nostra”, è talmente importante che merita qualsiasi sacrificio, compreso quello di sostenere l’odiato “Berlusconi terrone!” (scritta che ha campeggiato per anni sul muro della cartiera Binda a Gemonio). Ma definire modesti i risultati ottenuti, mentre la Lega era ancora al governo e anche prima della crisi attuale, è fargli un onore che non meritano: i risultati sono nulli, parola di Pagliarini.

Il celodurismo, inteso come rozza versione machista di una concezione paternalistica e patriarcale dei rapporti umani, è morto quando si è capito che l’ictus era stato probabilmente provocato da uso eccessivo di Viagra in un motel del Bosinate (mi baso su una affermazione di Pietro Citati [Google Search “citati viagra bossi” – senza virgolette ma con le tre parole in “ricerca avanzata” – restituisce 50.100 hits il 23 Aprile 2012]. Sull’oggetto dell’incornatura vi sono da parte dell’interessata denegazioni pubbliche, ma il Viagra non è mai stato messo in dubbio, neppure nel racconto di Leonardo Facco, nel libro Umberto Magno (Aliberti).

Nella malattia, il vecchio leader ha dimostrato una notevole capacità di resistenza di cui gli va dato umanamente atto. Rimane che, invece di fare allora (rimessosi parzialmente dagli esiti devastanti dell’ictus dell’11 marzo 2004) una ritirata dignitosa verso una carica più onoraria e santificante, Bossi, per volontà sua o della dirigenza della Lega – o più probabilmente della famiglia e di un cerchio ristretto di parenti e comites o clientes fedeli, che non volevano cedere il potere nel partito al sempre incombente Maroni – ha puntato su un delfinato famigliare, senza mollare lo scettro e spingendo avanti l’improbabile Renzo. Quella cerchia si trasformò poi (anche, pare, per le inclinazioni esoteriche della signora Bossi, la professoressa Manuela Marrone) nel famoso “Cerchio Magico”, in effetti un cappio o una garrota via via sempre più stretta attorno al collo del vecchio leader menomato. Il regista di questa fase, chiunque sia stato, forse lo stesso Bossi, ha scelto la via mediatica della pietà per la sofferenza, cercando di ricalcare la performance di Woytila. Si può dire che fosse una scelta inevitabile, per “garantire la continuità”, come dicono sempre i despoti, anche quando gran parte dei seguaci è proprio questa continuità che vorrebbero interrompere. O forse questa scelta era effettivamente inevitabile per tenere insieme un partito che “senza Bossi dura sei mesi” (Monica Brizzi a Formigli in Piazzapulita del 12 Aprile [http://www.la7.it/piazzapulita/puntate.html]; lei è durata poco più di sei giorni). Ma è stata una scelta estremamente costosa: forse alcuni militanti si commuovono, ma molti elettori o potenziali elettori e investitori di fondi in questo paese, non sono certo attratti dal farfuglìo su una cicca sbausciata di toscano.

E la lucidità è mancata: quando Bossi ha pensato di dare un viatico affettuoso al figlio chiamandolo “Trota” gli ha dato una mazzata mediatica che, coniugata con un volto che difficilmente potremmo classificare tra quelli che sprizzano intelligenza, ha trasformato il povero (sifapperdire) Renzo in una icona mediatica da World League dello sberleffo. È peggio di quel personaggio di Cerami che ha chiamato il povero figlio deforme Omfalo, senza rendersi conto che Omphale in francese è un nome femminile. L’infilarlo alla Regione a 12mila al mese, ovviamente giubilando qualcuno che perla Lega “si era fatto il culo”, come direbbe Bossi, è stato più di un errore clamoroso: uno sberleffo per tutta quella base che per anni è stata gasata con il valore del “farsi il culo”. E non ha certo giovato sapere che noi tutti gli pagavamo le tasse universitarie in una università straniera (ma dove? 100mila euro! Ma neppure Harvard costa tanto. Ela Monica Brizzi che dichiara a Formigli che all’estero il Trota “prende dei bei trenta”. Ma dove? I trenta si danno solo in Italia; buffalmacchi!).

Il celopurismo è morto da tempo, ma il suo funerale pubblico è stato fatto a Berghém 10 Aprile 2012, ore 21.00 quando sono comparse le scope e si è riconosciuto che c’era del marcio, e parecchio, nel regno di Gemonio. La parola d’ordine è stata subito quella di continuare con la vecchia favola di una Lega “diversa”, l’unica in cui ci sono state delle dimissioni, e in cui con invincibile faccia di molibdeno il leghista Matteo Salvini dice che sarebbe un’organizzazione in cui “chi fa errori paga, senza guardare in faccia a nessuno”, salvo ovviamente il figlio del Capo. E in cui con altrettanto granito sulle gote Maroni dice “non faremo la caccia alle streghe” ma una la nera maga immigrata dalla Colchide, Rosi Mauro, intanto l’hanno già bruciata. Caccia alle streghe no, rogo alla strega (The Witch, ma anche The Bitch): già fatto. E continua a non cambiare nulla perché la Rosy continua ad andare a casa dei Bossi (La Stampa 14 aprile).

E tutti, con una faccia di bronzo da prima linea, per usare un understatement, giù a celebrare le dimissioni di Bossi e del Trota, che sono invece delle furbate, come quei giochi che si facevano da bambini con le palle di fango in cui il più svelto a tirare giù la testa faceva arrivare il fango in faccia a quelli dietro. E anche se non ho nessuna speranza che mai un Salvini o un Cota possano arrivare a leggerlo, suggerirei un testo del 1911 (in it. 1912), La sociologia del partito politico di tal Roberto Michels (libro per inciso che dovrebbe essere obbligatorio per chiunque intenda fare politica) dove si può leggere un pezzo assolutamente illuminante sulle dimissioni e il loro uso opportunistico in politica. È proprio il caso di dire un libro scritto “in quo toto continetur”, in cui era già stato detto tutto, ma questi riscoprono furbescamente l’ombrello e gran parte dei commentatori l’ombrello se lo fanno felicemente altanizzare.

Vedremo cosa succederà alle amministrative, però io penso che oggi assistiamo non alla la fine della Lega (in Italia non finisce mai nulla, persino il comunismo continua a vegetare), ma alla fine della favola di una “Lega dura e pura”. Difficilmente, credo, questa Lega potrà incantare molti elettori vecchi e nuovi. Il sogno di Maroni di una Lega “primo partito del Nord” è basato sul calcolo opportunistico che ha tenutola Lega fuori dall’appoggio al Governo Monti, puntando a interpretare gli inevitabili scontenti di questa fase, ma dubito che riuscirà a scaldare molto gli animi e, comunque, si troverà molti competitori per il voto di quest’area, a partire da Grillo, compreso il più temibile di tutti, l’astensione. Maroni è un po’ come D’Alema nel PD (con cui tra l’altro condivide il nomignolo, l’uno “baffino” e lui “baffetto”) molto abile nella politica politicante e nelle frecciatine a mezza bocca, ma scarsamente magnetico per la simpatia: è abbastanza difficile che riesca a trascinare le piazze, con quella faccettina da bosìno furbacchione.

Si è detto che la mancanza di un partito come la Lega farà venire meno la rappresentanza politica di un ceto sociale importante, o e persino di tutto il Nord, ma questa è più che altro una invenzione dei molti intellettuali e sociologi, veri o finti, che a volta a volta si sono commossi perla Legao hanno cercato di influenzarla, a partire da Miglio che si è beccato l’appellativo di “scorreggia nello spazio”, anche se poi qualcuno l’ha recuperato nel Pantheon perché qualche nome bisogna pure avercelo. Ma nell’universo “bosino” o “brembano” o “brianzeou” dei vari Bossi e boss leghisti, gli intellettuali sono proprio solo questo, e non vengono neppure onorati degli stivali di Mussolini, ma solo perché i tempi sono cambiati e gli stivali non si portano più.

Il punto fondamentale è che la Lega, al suo popolino (nonostante tutto sempre minoritario, salvo aree ben circoscritte) che l’ha votata, non ha offerto affatto rappresentanza ma solo rappresentazione mediatica. Il progetto reale che avrebbe dovuto rappresentare il Nord, cioè il federalismo fiscale era già fallito, morto e sepolto con le leggi fatte mentre la Lega era ancora al governo. Ma lo spettacolo che veniva rappresentato era Calderoli che bruciava inesistenti provvedimenti, e noi pagavamo anche i soldi per il fuoco. Il vero genio mediatico del berlusconismo non è stato Silvio, ma Umberto: non possiamo negare che sia stata una bella gara al Guinness della stronzata, ma Bossi è stato più creativo perché si poteva permettere di essere più volgare, più sfrontato, più oltraggioso, di un Berlusconi, che un poco doveva sacrificare ai vestiti di Caraceni (finto) e al “mi consenta” di prammatica. E Bossi ha giocato invece tutto sulla sfrontatezza da istrionesco sbruffone, disponibile a qualsiasi affermazione o gestaccio oltraggiosi, pur di richiamare l’attenzione, impersonando senza vergogna, e con grande talento, quel tipo che a Milano si chiama balabiott e in bosìno pataaveérta, il fanfarone inverecondo. Ma né dall’uno né dall’altro di costoro il mitico Nord ha ricevuto alcunché, se non una rappresentazione volgare e falsata di una regione favolistica chiamata Padania, che c’è solo quanto a inquinamento atmosferico.

E buona parte del successo della Lega, nonostante le pretese contrarie, è dovuta alla circostanza che, per una ragione o per l’altra, o per opportunismo come i berlusconiani, o per gli affaretti come per i ciellini, o per elucubrazioni astute come per i dalemini, o per generico preteso anticonformismo come è avvenuto per non pochi intellettuali, ma sopratutto per legioni di addetti allo spettacolo mediatico, molti, moltissimi, invece di ribellarsi sempre e comunque alla volgarità populistica, hanno ridacchiato, e si sono mescolati alla platea sghignazzante o plaudente pensando che tanto “‘a nuttata” sarebbe passata. È passata sì, ma il buio è rimasto, anzi si è infittito; e ora, il leghismo, se si fa adulto e la smette di vagheggiare una purezza che ha perso e si comporta come un partito normale che qualcosa da dire ce l’ha, come il sindaco Tosi; una organizzazione da salvare ce l’ha; dei militanti dedicati ce li ha, qualche chance di continuare a radunare i leghismi sparsi ce la può anche avere. Se invece vuole continuare a raccontare la favola del celodurismo del celopurismo e della “diversità” (“questa qua la conosco, purtroppo”) difficilmente potrà continuare a ingannare molti elettori.

 

Guido Martinotti

 

 



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