24 aprile 2012

A TUTTI I FANTASMI


La sveglia alle sei e mezza, come sempre. La colazione consiste in fette biscottate, di quelle croccanti solo il primo giorno che le apri, e mini marmellate di dubbia consistenza, rubate all’albergo dove lavorava, in nero, prima di perdere il posto per una sbronza mattutina. Si era abituato a essere un’ombra: non puoi essere altrimenti, se sei extracomunitario e non hai il permesso di soggiorno. Sgomberò il tavolo dalle heineken sessantasei, vuotandone una ancora mezza piena con un gorgogliante sorso; quindi cominciò a mangiare. Salutò di sfuggita la moglie che usciva per andare al lavoro, a casa di una ricca famiglia residente in centro, per preparare la colazione a due bambini non suoi e portare a pisciare un cane non suo. I loro bambini, Cristopher e Jenny, si sarebbero svegliato da soli, lei per andare a scuola, lui per vedere gli amici della sua gang e sentirsi grande, con l’illusione di potere che un coltello sa regalare. Finì un altro fondo di bottiglia, s’impomatò i capelli e scese in strada, direzione Ortomercato, per cercare un lavoretto che alleviasse quella sensazione di inutilità che attanaglia un disoccupato, padre di due figli, cresciuti lontano da dove avrebbe voluto lui.

Sveglia alle sette, come sempre. La mamma che apre le persiane e lascia entrare la timida luce di gennaio, che rivela la camera tappezzata di poster: Rambo troneggia su tutti, Chuck Norris compreso. Se non fosse per il letto la camera sembrerebbe una palestra: bilanciere, pesi e cyclette la riempiono per tre quarti. Aprendo gli occhi vide il vuoto lasciato laddove aveva appeso le foto di Marika al mare, Marika a Gardaland, Marika e lui vestiti eleganti per un matrimonio. L’aveva lasciato, diceva che era troppo violento. Lui le aveva tirato uno schiaffo e se n’era andato. Fece colazione insieme a mamma, con la compagnia del Tg mattina, indispensabile per cominciare male la giornata. Prese dall’armadio l’uniforme e l’odiato cappello da ghisa e li indossò davanti allo specchio, pensando a quanto meglio avrebbe calzato sui suoi muscoli l’uniforme dell’esercito. Provava da sei anni a entrarci, sperando che prima o poi, esausti, l’avrebbero arruolato. I due precedenti per aggressione non favorivano i suoi militareschi propositi. Scese in strada, direzione commissariato, pronto per un’altra noiosa giornata da vigile urbano: si sentiva inutile, senza donna, residente a trent’anni dai suoi. La verità è che nella vita non aveva mai fatto niente.

Aveva passato la mattinata a scaricare cassette, insieme a un marocchino svuotò un container carico di banane. Non scambiarono una parola, ognuno impegnato a pensare al sole del proprio paese. Immaginò di chiudersi in uno di quei container diretti in Sud America, e salutare quell’odiata città perennemente sottozero. Intascò i quindici euro pattuiti per le cinque ore di lavoro, ne spese dieci per un pollo a la brasa e qualche heineken sessantasei, che si accinse a bere su una panchina ghiacciata. Quando vide una volante della Polizia Locale rallentare il cuore gli salì in gola. I poliziotti scesero per fare una multa a una macchina in divieto di sosta e ripartirono. Non lo degnarono di uno sguardo, e ne gioì: voleva essere un fantasma, doveva essere nessuno. Dopo anni di clandestinità ti abitui a scappare, a essere trasparente, a trasalire alla vista di una qualsivoglia uniforme. Bevve mezza bottiglia in un sorso, per lo spavento: tremava ancora. Lo avrebbero rispedito in Cile, il che non era affatto male: non vedeva la sua terra da dieci anni, il biglietto costava troppo. Lo terrorizzava l’idea di dover abbandonare sua moglie, sua figlia, così bella, e suo figlio, che aveva bisogno di controllo: lo aveva visto girare con quei criminali dei Latin King. Ma cosa può rimproverare un padre disoccupato e prossimo all’alcolismo a un figlio di sedici anni?

Una mattinata come le altre, trascorsa girando in volante con quel rincoglionito di Matarrazzo, uno con la faccia, il pizzetto e la codardia del vigile urbano. Uno che, quella volta che aveva steso con un destro un venditore di borse senegalese, aveva messo a verbale l’aggressione, ligio alla legge e dimentico del cameratismo tra colleghi. Aveva passato due mesi a far attraversare la strada ai bambini fuori da scuola e aveva rischiato di perdere il lavoro e di finire a fare la guardia giurata, o il buttafuori, altro non poteva fare.

Tra le due ipotesi non sapeva cos’avrebbe preferito; il buttafuori fa a botte quando vuole, ma non ha la pistola. La accarezzò, metallica e quieta nella cintura bianca di finto cuoio. Dalla volante osservava Matarrazzo dirigere il traffico al centro di un incrocio; sembrava coinvolto e felice, il coglione. Lui odiava farlo. Odiava gli sguardi dei passanti, sguardi che ti trapassano come se fossi un fantasma, sguardi indifferenti, ingrati e incazzati: preferiscono un semaforo, a un vigile urbano.

Si era addormentato sulla panchina. A svegliarlo fu la chiamata di un suo amico che proponeva una partita a calcetto. Nonostante la pancetta se la cavava ancora bene: soprattutto era piacevole passare del tempo con i suoi connazionali, condividere gioie e angosce. Lo raggiunse e salì sulla macchina, volutamente appariscente, con quell’assetto basso, gli alettoni e l’adesivo enorme sul lunotto posteriore con scritto Bandido. Sembrava felice, l’amico: proprio quel giorno aveva trovato un lavoro, consegnava pizze in motorino: non male di quei tempi, uno dei migliori lavori a cui poteva ambire un irregolare come lui. Parlavano di questo, quando videro i lampeggianti blu dietro di loro.

La radio della volante aveva gracchiato un ordine: recarsi vicino al Parco Lambro per sedare una rissa. Giunti sul posto ovviamente non trovarono nessuno, pertanto si misero a pattugliare la zona. Finirono dietro a una macchina, palesemente di un sudamericano, che puzzava: ‘’accendi la sirena va’, Matarrazzo, che vediamo chi cazzo è ‘sto Bandido’’. Lo stronzo prese ad accelerare. “Vai Matarrazzo, stagli dietro!’’. La macchina imboccò contromano una viuzza perimetrale del parco e li seminò. Quando arrivarono all’ingresso del parco, vide le portiere aperte e due sudamericani che correvano a perdifiato. Aprì la portiera, estrasse il ferro e, tenendolo con due mani, esplose un colpo.

Era bastato uno sguardo fra i due amici. “Accelera Chico, che qua ci rovinano’’. Scese e si mise a correre. Crollò. Ebbe qualche secondo per realizzare cos’era successo. L’ultima immagine fu un pic-nic lì al Parco Lambro in un giorno di sole, sua moglie e i bambini con cui giocava a calcio. Poi la luce.

E poi? Non rimane nulla, solo domande.

Quaranta persone al funerale gentilmente offerto dal Comune; una poesia di Neruda, la sua preferita, letta dal prete.

E il viaggio, finalmente, in Cile, per riposare al sole e nutrire la sua terra.

Un uomo solo, che si credeva uno sceriffo, in carcere, a chiedersi perché.

Nel parco c’è solo un mazzo di fiori sulla neve, neve grigia che resiste qualche giorno.

Oggi è uscito il sole e si è sciolta anche quella.

Due fantasmi, una storia.

 

Paolo Cerruto

NdA. Il testo è liberamente ispirato a una vicenda avvenuta nel mese di febbraio a Milano, nel quartiere dove vivo. Ho cercato di immaginare la vita dei due protagonisti, un irregolare cileno, Marcelo Valentino Gomez Cortes e un vigile, Alessandro Amigoni. L’agente stava intervenendo dopo la segnalazione di una rissa in via Orbetello, quando ha incrociato l’auto con a bordo Cortes e l’amico, che ha non si è fermato al posto di blocco. È iniziato l’inseguimento, fino all’ingresso del parco Lambro: la vettura della Polizia Locale ha tamponato l’auto in fuga e a quel punto le due persone sono scappate a piedi. Come ha stabilito la perizia balistica, l’agente Amigoni ha esploso un colpo da una distanza ravvicinata (non più di 3 metri). Il proiettile ha trapassato il ventinovenne cileno, padre di due figli. Essendo questi disarmato, l’iniziale ipotesi di reato di “eccesso colposo di legittima difesa” è diventata accusa di ”omicidio volontario’’.

 

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