24 aprile 2012

LA RIVOLUZIONE ORIENTALE: NELLE SCUOLE DI MILANO SI STUDIA IL CINESE


«Omero è l’uomo nero». Una piccola scritta a pennarello sul muro, accanto ai banchi dell’ultima fila. La classe è al pianterreno del liceo Berchet di Milano. Da più di cent’anni, in via della Commenda, si studiano il greco e il latino. Ma alle paure per un’interrogazione sull’Iliade, presto potrebbero aggiungersene altre. E l’uomo nero tramutarsi in Confucio. Perché, da gennaio, la campanella suona anche per le lezioni di Lingua e Cultura cinese. E non è escluso che l’insegnamento diventi obbligatorio. Come già avviene in altri istituti milanesi dove il cinese fa media in pagella, come l’inglese. Pioniere della sperimentazione è stato il liceo linguistico comunale Manzoni. A seguire il Galvani, il Cremona e l’istituto tecnico Zoppa. In tutto, solo a Milano, sono cinque le scuole superiori in cui si imparano gli ideogrammi, diciotto in Lombardia. E ogni giorno circa 1.500 studenti si esercitano con la lingua del Celeste Impero.

Da Tacito a Confucio? «Sì, e senza paura» Mercoledì, tardo pomeriggio. Ginevra, 14 anni e tanti boccoli biondi, è seduta in prima fila. Potrebbe essere a spasso con le amiche per le vie del centro ma preferisce la lezione. «Il cinese mi rilassa. E poi è l’unica lingua che studio, a parte l’inglese», dice dimenticandosi per un attimo delle versioni in greco e latino. La sua vicina di banco, Sara, guarda al futuro spensierata: «Mi potrebbe servire per un colloquio di lavoro». Non sono solo gli studenti ad approfittare dell’opportunità. I corsi, nati da una collaborazione con l’Istituto Confucio della Statale, sono aperti a tutti. Manager, casalinghe, operatori del no profit: in tanti hanno deciso di partecipare alla “rivoluzione orientale” del Berchet. «Abbiamo avuto 150 domande a fronte di una disponibilità di una quarantina di posti», spiega il preside Innocente Pessina. Più di cento persone, le ultime per data d’iscrizione, hanno dovuto rimandare il primo approccio con questa lingua logografica. Una moda? No, secondo la professoressa Stefania Enea: «Non può essere qualcosa di passeggero. Lo studio è impegnativo e richiede uno sforzo di memoria importante. Chi si avvicina lo deve fare con le giuste motivazioni». Certo, prima si comincia meglio è. E ci si può anche divertire. In una classe vicina Zhu Sha, docente madrelingua, sta insegnando «Fra Martino» ai suoi giovani allievi. In cinese, ovviamente.

Una riforma attesa da cinquant’anni La musica orientale continua a mescolarsi con quella classica: dall’aula magna si sentono le note di un pianoforte. «Non è stato facile aprire alla novità», ammette il preside Pessina. «Qui, tutto quello che è esterno al curriculum è percepito come uno snaturamento del percorso formativo. Ma è giusto stare al passo con i tempi». In realtà, l’apertura è arrivata tardi. Non solo per il liceo storicamente considerato della “buona borghesia”, ma per tutti gli istituti secondari italiani. «Nel 1991, quando ero una studentessa universitaria, incontravo a Pechino i liceali europei», dice l’insegnante Stefania Enea. In Francia, è dagli anni Settanta che si studiano le lingue orientali nei licei linguistici. In Gran Bretagna dal 1952. In Italia solo grazie alla riforma dal 2010. E i problemi non mancano. «Non esiste ancora un concorso nazionale per l’insegnamento del cinese», spiega Giorgio Galanti dell’Ufficio scolastico della Lombardia. Mancano le graduatorie da cui pescare gli insegnanti e così la Regione ha fatto da sé. «Abbiamo costituito una commissione composta da sinologi delle Università e dell’Istituto Confucio», spiega il dirigente. Spetta a questo comitato decidere i criteri e i titoli necessari per insegnare il cinese nelle scuole superiori.

Non solo i liceali, anche i ragionieri parlano cinese Ilaria D’Adda, 25 anni, si è laureata alla Statale nemmeno un anno fa. La sua Facoltà, lingue e culture per la comunicazione internazionale, non sembra risentire della crisi. Specie se, come lei, si sceglie il cinese. «Ho cominciato per gioco. All’inizio volevo fare carriera in un’azienda», dice sorridendo. Da settembre è assunta come insegnante al Galvani e allo Zappa, due scuole non lontane dalla Chinatown milanese. Tra interrogazioni e dettati il lavoro non manca: «Questa esperienza è abbastanza faticosa per il tipo di classe che devo seguire: ci sono solo due italiani e una peruviana, per il resto i ragazzi sono cinesi di seconda o terza generazione. E il livello di partenza è molto diverso». Una classe variegata e rara: l’unico caso, a Milano, in cui i futuri ragionieri studiano in cinese. «Abbiamo deciso di fornire a questi ragazzi degli strumenti aggiuntivi per confrontarsi col mondo», racconta il preside Giorgio Bagnobianchi. La risposta degli oltre 20 mila della comunità cinese a Milano è stata buona. Per loro studiare gli ideogrammi vuol dire riscoprire le origini. Da un banco arriva la voce squillante di Hu, una ragazzina: «È vero, non ci avevo mai pensato», dice rivolta alla lavagna. L’insegnante Ilaria ha appena disegnato il carattere che rappresenta l’elettricità. « È un fulmine che attraversa un campo, vedi?».

 

Davide Lessi

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