24 aprile 2012

QUESTIONI MENEGHINE TRA SACRO E PROFANI


Una spalla sulla Repubblica di Milano di qualche tempo fa si intitolava “Viva la lirica popolare, però la città merita di più”. L’articoletto in questione è in pratica un mix tra una stroncatura e un quadretto deamicisiano (metà dell’articolo è costituito da aneddoti di costume sul pubblico della maldestra Aida presentata alla Fabbrica del Vapore nei giorni scorsi) la cui tesi di fondo è: si poteva fare di meglio, ma è sempre meglio che niente. Se proprio vi preme leggetelo, ma se ne può fare anche a meno. La notizia interessante è semmai che, contro tutti i pronostici, iniziative come queste siano coronate dal successo. L’anno scorso, d’estate, la stessa compagnia, con lo stesso successo di pubblico, tra l’altro, aveva portato una serie di opere al Castello Sforzesco. Il regista, intervistato dal TGr, spiega che il suo obiettivo, con mezzi molto limitati, è quello di portare la grande opera “fra la gente”, operazione certo non innovativa ma come sempre degna di merito.

Evitando d’emblée l’interessantissima questione sintetizzabile in “l’opera è viva, l’opera non è viva”, (la lascio volentieri ai giornalisti di Repubblica Milano per riempire la prima pagina dopo la fine dell’altro annoso dilemma “via Craxi sì, via Craxi no”) vorrei fare alcune considerazioni sul tema la lirica e Milano.

Che sia viva o non sia viva l’opera attrae a Milano persone da tutta Italia (se non da tutto il mondo). A Milano abbiamo la Scala che, ancorché un po’ acciaccata, resta una delle domus auree della lirica nel mondo. Probabilmente dopo il Cenacolo e le mutande di Dolce e Gabbana è anche la fonte di interesse turistico più importante per Milano.

Prima ideuzza: durante le feste di Natale, sul Piermarini venivano costantemente proiettate delle orribili animazioni con sottofondo di musichette new age. Art for art’s sake ma minga trop insomma. Ci vorrebbe tanto perché al posto della trashata estemporanea di turno (che proiettata in piazza Scala, sulle villette in Val Brembana o a Manhattan fa lo stesso perchè c’entra con Milano quanto Sant’Ambrogio c’entra con l’Empire State Building) pagata migliaia di euro dai cittadini elettori si ragionasse su una valorizzazione coerente di una delle piazze più famose del mondo? Piccolo spunto: essendo la piazza antistante a un Teatro in cui si produce musica per almeno 5 ore al giorno, 300 giorni l’anno, non si potrebbe proiettare sulla facciata, su un maxischermo, su quel che si vuole, lo spettacolo che in quel momento si sta svolgendo dentro? Un piccolo passo per portare l’opera fra la gente ma, forse, un passo un po’ più grande per un’installazione artistica decente.

Seconda ideuzza: considerando che l’invito alla Scala per giovani e anziani mediamente è un quartetto di archi che suona tre pezzi in croce vagamente orecchiabili, sicuramente poco adatto a un pubblico di giovanissimi e comunque poco consono coll’immaginario di “grande teatro dell’opera” che circonda la Scala quasi con un alone mistico; considerando il successo enorme della “anteprima per i giovani” di Sant’Ambrogio (grande idea, sinceramente parlando, e grande merito di Lissner che, non a caso, sta già soppiantando la Prima ufficiale nel mondo della melomania e della critica); considerando che il bilancio della Scala è in buona parte frutto di contributi di enti terzi (fondazioni bancarie, Enti locali, …) e non è dunque basato esclusivamente sulla vendita dei biglietti, cosa che vincolerebbe il teatro a tenere una strettissima politica di prezzi, sarà mica impossibile unire queste tre cose e trasformare quel teatro da luogo dove si va per dire “sono andato alla Scala, ue, un lusso che non ti dico” in luogo di fusione tra il mondo reale e il fantastico mondo dell’opera? Insomma anche qua, secondo il detto coranico della montagna e di Maometto, perché invece di “portare l’opera fra la gente” non si fa semplicemente in modo che la gente possa permettersi se ne ha voglia di andare alla Scala? Nel corso della mia carriera scolastica di studente (ahimè molto lunga) sono andato alla Scala “a vedere un’Opera” parecchie volte. Di queste parecchie volte una sola è stata per merito e iniziativa della mia scuola, per il resto tutta farina del mio sacco. Ora consideriamo la nostra semenza di giovani: sarà più probabile essere attratti da famose arie di opera (che checché se ne dica sono nella nostra testa sia musicalmente che come parole: “vendetta, tremenda vendetta” è in un libretto famosissimo, ma viene usato quotidianamente e inconsciamente per esempio), nell’ambiente un po’ magico della Scala a tarda sera o da una pomeridiana piena di studentelli e vecchietti per sentire un quartetto di flauti che suona la Per Elisa di Beethoven?

Terza ideuzza, molto connessa colla seconda: L’unica volta (spero che altri abbiano avuto esperienze migliori delle mie e che mi smentiscano) che sono andato con la scuola a vedere una bellissima, e oramai classica, versione della Madama Butterfly, lo spettacolo era stato preceduto da un minicorso fatto da un appassionato. Sembra poco, ma noi studentelli avevamo avuto la possibilità di apprezzare, diversamente dal solito, lo spessore di un’opera che troppo spesso viene bollata come “sentimentale e sciatta”. A ogni modo si apprezzava la differenza tra un ascoltatore buttato a casaccio tra le sedioline di velluto rosso per la prima volta e uno che invece sapeva cosa andava ad ascoltare. E per un’opera non è cosa da poco dato che si tratta di spettacoli incomprensibili (e perciò facilmente bollabili come “nenie romantiche”) se non contestualizzati col gusto e colla cultura del loro periodo. Dunque oltre a promuovere “l’opera tra la gente”, bisognerebbe anche promuoverne la cultura, la comprensione e l’ascolto.

Finiamo le ideuzze con una considerazione semplice: non si tratta solamente di facili critiche generalizzanti, ma di un invito a considerare con più ampio respiro le risorse di Milano: non solo per garantirne una diversa fruizione e vivibilità da parte della cittadinanza, ma anche per ridarle il prestigio che merita sinceramente. Basta con questo navigare a vista per paura di “dire”, di prendere posizioni chiare. Serve un progetto nuovo che guardi non tanto al racimolare qualche voterello in più ma a segnare un campo d’idee e d’azione; a mettere i paletti; a dire quello che siamo e quello che vogliamo (perché il politico non può dire come il poeta “non chiederci la parola”!). Sarebbe veramente una rivoluzione per la sinistra milanese. Sarebbe veramente difficile lo so, ma sarebbe solo così che il centrosinistra passerebbe, per restare in ambito teatrale, da comparsa e coro della giunta Moratti ad alternativa credibile e, perché no, a futuro diverso per Milano. Perché l’obiettivo è questo: creare un’alternativa che, a oggi, non c’è e che se c’è non si sa che fine abbia fatto.

Post Scriptum: la ex metropolitana soprelevata di New York è stata trasformata in giardino soprelevato, opera invidiata e chiacchierata in tutto il mondo; le stecche ferroviarie milanesi versano in uno sfacelo penoso e l’unica prospettiva di “riqualificazione” plausibile è costruiamoci tante belle casette. Sicuramente questa operazione garantisce un guadagno immediato al comune e a chi gravita attorno all’indotto dell’edilizia. Ma la città nel suo complesso ci perde o ci guadagna? E siamo sicuri che sul lungo periodo poi non sarebbe più lucrosa (per il turismo, ma anche per i prezzi degli immobili circostanti, per le offerte culturali sulla città, per il prestigio ecc.) una soluzione di “larghe vedute” piuttosto del solito impalazzinamento? Neanche a farlo apposta è notizia eterna che nel progetto “city life” mancano i finanziamenti, guarda caso, proprio per il museo di arte contemporanea. Solita storia di ordinaria follia milanese.

 

Mattia Lunardi

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