24 aprile 2012

CONOSCERE MILANO DALLA METRO


Ho desiderato fin dall’adolescenza di partecipare a uno scambio culturale, di visitare o meglio ancora vivere in luoghi diversi dalla “mia” affascinante ma monotona campagna mantovana.

Spesso ho sognato un lontano paese africano o dell’America Latina in cui avrei potuto soddisfare questo mio desiderio.

In realtà il primo scambio culturale della mia vita è iniziato alla fermata Lambrate FS della “verde”, come sbrigativamente è chiamata qui a Milano. Nei miei primi sei mesi di soggiorno nella capitale degli Sforza, è stata la linea metropolitana che mi ha fatto conoscere meglio i suoi cittadini.

Lambrate è una stazione che definirei un non luogo, uno spazio o piuttosto uno snodo nel quale ogni giorno migliaia di persone si incrociano senza incontrarsi, senza stabilire relazioni.

Quando al mattino vi arrivo, al termine della prima scalinata, mi si presenta solitamente davanti una donna non più giovane che tende la mano e pronunciando qualche parola chiede gli spiccioli per poter far fronte alla fame. Così il primo impatto con la grande metropoli ne rivela l’innata capacità di mettere in evidenza e amplificare, davanti agli occhi di tutti i passanti, i problemi della società e in particolare l’emarginazione.

Poi mi infilo nel corridoio che mi porta alle “obliteratrici” della metro. È una parte del mio “viaggio” dove non ho tempo da perdere, perché qualche secondo di ritardo potrebbe farmi perdere una metro e aspettare la successiva. Così mi capita di provare fastidio per gli ambulanti, rigorosamente abusivi, che con i loro lenzuoli stesi sul pavimento, per disporre secondo un ordine quasi maniacale la loro merce, mi rallentano nella corsa verso la mia meta. Ogni mattina alla loro vista mi chiedo come questi ambulanti del sottopasso riescano a fare affari vendendo tutti le stesse borse o le stesse cuffie uno attaccato all’altro.

Sempre di corsa, mostrando il biglietto del treno, passo di fianco alla cabina dei controllori ATM che se non mi aprono subito il cancelletto, mi costringono a battere un colpo sulla vetrata per sollecitarli. Ci sono giorni più fortunati nei quali trovo il cancelletto già aperto. Comunque vada non mi controllano mai il biglietto. Sarà che arrivo sempre negli orari “di punta” o forse per via della mia strategia espressiva, un misto tra smorfia, sorrisino e saluto, ma sto convincendomi che i controllori abbiano l’impressione che io sia certamente un bravo ragazzo e quindi in regola con il biglietto.

Dopo i primi ostacoli superati a tempo di record, ne devo ancora affrontare altri prima di fermarmi sulla carrozza. Infatti il mio percorso prevede la rapida discesa delle scale mobili per arrivare alla banchina, dove la mia pazienza viene messa a dura prova. È prevista infatti una corsia per i sorpassi a sinistra, ma qui trovo regolarmente gente senza fretta che mi fa perdere secondi preziosi. Finalmente raggiungo la zona attigua ai binari dove sono circondato da una massa di persone che per la maggior parte stanno leggendo l’ultima edizione di un piccolo quotidiano distribuito gratuitamente (venti pagine di pubblicità e tre di notizie), in attesa che arrivi il primo treno, preceduto da un sibilo di rumori e d’aria forzata che mi sta diventando familiare.

È il momento di salire. Mi sento in coscienza un maleducato perché “prima di salire bisogna far scendere”; per i bambini milanesi è una delle prime regole da imparare, insieme a non mangiare con la bocca piena e non fare le linguacce.

A distanza di qualche mese, mi sono costruito mentalmente una sorta di catalogo dei differenti utenti della metro. Così passo i cinque minuti tra Lambrate e Loreto catalogando ogni persona intorno a me.

C’è la signora distinta che legge un libro o una rivista di moda o per la casa, il ragazzo che smanetta col cellulare, ascolta la musica e/o naviga su Facebook. Ci sono quelli che già alle 8 di mattina fissano lo sguardo nel vuoto. Nel catalogo dei rumori ci sono i ragazzi di origine africana o asiatica che urlano al cellulare nella propria lingua madre, ci sono anche le persone di mezza età che non sanno togliere la suoneria dal cellulare. Poi vedo altre categorie: i ragazzini pieni di gel che si scambiano effusioni con le proprie “morosine”, i musicisti più o meno bravi, gli intrattenitori che sostengono di “essere migliorati dall’ultima volta”e per finire i turisti che probabilmente si sono persi e stanno cercando la via per tornare indietro.

Nel momento in cui scendo dalla metro a San Babila, la velocità degli altri mi contagia: sono loro a dettare il ritmo della mia corsa verso l’uscita. Salgo e raggiungo la strada provando una certa delusione quando ai miei occhi compare solo un paesaggio colorato con diverse tonalità di grigio. Un grigio che viene interrotto solo dai cappotti fluorescenti dei passanti (e delle vetrine) di Corso Vittorio Emanuele II. Un grigio che si colora di allegria quando finalmente incrocio gli sguardi e i sorrisi dei miei compagni di università all’ingresso in aula.

 

Lorenzo Pirovano

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