17 aprile 2012

I NEGOZI CHIUDONO E SE RIAPRONO NON SONO PIÙ GLI STESSI


A Milano, come in tutte le città italiane, comincia a essere evidente la difficoltà di molti negozi. Gli esercizi che chiudono sono sempre più visibili lungo gli assi commerciali e alcuni paventano una possibile desertificazione delle nostre vie. È una preoccupazione legittima, ma che va anzitutto collocata in un contesto, quello italiano, dove la presenza di punti vendita ha una densità che non esiste in nessun altro paese confrontabile. Abbiamo, pro capite, quasi il doppio dei negozi dei francesi, poco meno del triplo dei tedeschi e quasi quattro volte quelli degli inglesi.

Una situazione che sconta la presenza di un numero molto elevato di imprese marginali (in particolare al Sud), che continuano a stare sul mercato in mancanza di alternative o gestiti da persone che danno un contributo “integrativo” all’economia del nucleo famigliare di cui fanno parte. È inevitabile che in una situazione di forte calo dei consumi una parte di queste imprese sia portata a chiudere. Saranno sostituiti? Almeno in parte probabilmente sì, da chi si accontenterà di ricavi molto modesti: in larga parte cittadini extracomunitari.

Ma non chiudono solo loro. Chiudono anche esercizi che hanno avuto in passato una dimensione economica più che dignitosa, che avevano spesso una lunga tradizione. Nel loro caso il problema è però diverso. La crisi in corso e il calo delle vendite spiegano solo in parte le chiusure, che non sono il risultato della congiuntura, ma di una debolezza competitiva che era strutturale ed evidente da tempo. Specie in alcuni comparti rilevanti, come l’abbigliamento, questi negozi chiudono perché non reggono la concorrenza dei monomarca e, più in generale, delle catene che riescono a sfruttare economie di scala sulle funzioni centrali d’impresa.

La recessione, rallentando spesso la loro sostituzione con operatori di questo secondo tipo, rende il fenomeno più visibile. Ma era in essere da molto tempo e chiunque abbia guardato con qualche attenzione alle insegne delle maggiori vie commerciali se ne era reso conto: le insegne indipendenti sono sempre meno e sempre di più quelle che possano fare valere una grande marca. In questo caso, si tratta quindi di un’accelerazione di un processo di sostituzione di imprese con una struttura artigianale con imprese ormai industrializzate, spesso con presenza internazionale. Dunque alle chiusure, magari con qualche difficoltà in più che in passato, seguiranno nuove aperture e le “luci” lasciate libere torneranno a illuminarsi.

La crisi in corso accelererà anche un altro fenomeno da tempo in essere nelle logiche di localizzazione delle attività commerciali, la loro concentrazione in “contenitori” in grado di attrarre clientela e di dare in questo modo supporto reciproco ai negozi che vi sono insediati. Non si tratta solo di centri commerciali veri e propri, o di vie a forte vocazione commerciale, si tratta anche di aggregazioni di quartiere che svolgono una funzione di vicinato. È una tendenza che può essere aiutata con diversi strumenti. Per le aggregazioni maggiori, con l’istituzione di distretti urbani del commercio, e qui Milano è in ritardo; per quelle di vicinato, attraverso iniziative mirate, in grado di dare economie esterne (pedonalizzazioni, arredo urbano, parcheggi) a chi voglia aprire un negozio.

 

Luca Pellegrini

 



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