10 aprile 2012

SVILUPPO E VENTURE CAPITAL NEL SOCIALE


Recentemente il professor Zamagni ha giustamente detto che la crisi del ’29 è stata una crisi di “ignoranza” e quindi affrontata con strumenti inadeguati, mentre l’attuale crisi è stata ormai profondamente analizzata nelle cause e negli effetti. È pertanto una crisi di “senso” che deriva dalla nostra incapacità ad abbandonare alcuni paradigmi del passato non più utili e a individuarne altri da sperimentare, ma soprattutto dall’assenza di coraggio di mettere in atto nuove strade.

Il dibattito sullo strumento del venture capital avviato da ArcipelagoMilano ne è la testimonianza. Negli ultimi anni è stato frequente e rituale il richiamo all’importanza dell’utilizzo di questo strumento. Il fatto che lo faccia ancheSalvatore Bragantini, un osservatore attento e indipendente, è una prova di quanto sia difficile superare appunto i paradigmi del passato e andare a vedere concretamente ciò che funziona o non funziona. Marco Vitale, nella sua intervista, spiega bene i limiti di questo strumento in Italia e il modesto impatto che può avere come strumento di creazione di sviluppo nel prossimo futuro.

In realtà bisogna andare oltre l’analisi di Marco Vitale e dire che in tutta Europa il Venture Capital sta dando un modesto contributo allo sviluppo. I dati dell’Associazione europea del settore (EVCA) indicano che sono finanziate in Europa circa 2.000 aziende ogni anno. Quasi la metà di esse non sopravvive, ma soprattutto poche riescono a diventare grandi in termini di occupazione. Inoltre il ritorno finanziario medio degli investitori nel settore è stato, negli ultimi dieci anni, di circa il 3%; un chiaro segno di modesto successo.

Per tentare di creare nuove iniziative economiche che diano, in tempi ragionevolmente brevi, opportunità di lavoro e di sviluppo dell’economia bisogna applicare ricette diverse che nel passato.

Il maggiore contributo a breve può solo venire dal settore dei servizi; ma servono anche iniziative di grande dimensione perché nel nostro paese la dimensione modesta delle aziende è ormai un limite molto grave. Di conseguenza serve individuare dei settori strategici e promuovere grandi visioni, grandi infrastrutture, progetti ambiziosi che creino il terreno fertile per grandi aziende.

Gli esempi sono sotto i nostri occhi: Berlino è diventata il centro europeo della creatività grazie alle sue caratteristiche low cost e alle infrastrutture di supporto che la città ha creato; Londra è il polo europeo della new economy grazie ai parchi scientifici pubblici/privati e agli operatori di seed finance che sostengono le nuove iniziative; Brooklyn, come ha recentemente ricordato il sindaco Bloomberg, è diventata il centro americano dei nuovi artisti di arte contemporanea anche per lo sforzo della municipalità di New York (che per un liberista come Bloomberg è un’affermazione non da poco!).

Quali possono essere le “vocazioni” e i punti di forza dell’Italia? Non è difficile individuarli: turismo, arte, food, stile, stili di vita e sanità.  Per tutti questi settori l’Italia è un marchio nel mondo anche se stiamo facendo di tutto per farlo appannare.

Vorrei qui fare degli esempi su ciò che si potrebbe fare.

Turismo: abbiamo bisogno di riqualificare aree importanti del Sud per renderle accessibili al turismo internazionale di fascia medio alta. Abbiamo in tutte le regioni del Sud zone bellissime non adeguatamente utilizzate. Tra l’altro lo sviluppo di attività economiche legali è l’unico modo per combattere a fondo le attività illegali e cioè, come dice Marco Vitale, sostituire un datore di lavoro illegale con uno legale. Un esempio di come fare lo abbiamo ed è quello della Costa Smeralda in Sardegna. Un grande investimento infrastrutturale e di fascia alta ha riqualificato l’intera regione creandone un marchio che ha avuto un’ampia ricaduta anche al di fuori del territorio dell’investimento iniziale. Si tratta di ripetere questi esempi con progetti che includano le infrastrutture, la logistica, il residenziale e il divertimento. Sono progetti che non possono che passare per un rapporto tra pubblico e privato e che cerchino di trovare in Italia e fuori dall’Italia investitori di lungo termine adeguati.

Food: siamo il marchio nel mondo, ancor più che nella moda, ma non stiamo sfruttando adeguatamente questa nostra posizione. Dobbiamo fare uno sforzo per promuovere il turismo alimentare. Il Food è ormai uno status simbol in tutto il mondo e dobbiamo qualificarci come il top in questo segmento ricordandoci che il turismo è ormai un prodotto e una “esperienza” e non una semplice offerta di alberghi, spiagge, e monumenti.

Arte: anche qui siamo il top del mondo ma non facciamo leva su questa nostra posizione. E il problema non è solo la situazione dei siti archeologici o dei musei, ma anche la mancanza di luoghi (Università, centri di formazione etc.) che attirino giovani ed esperti da tutto il mondo sul tema dell’arte e della sua storia. Per esempio 20% della città lagunare di Venezia è occupato dall’Arsenale. Un luogo fantastico e magico sotto utilizzato o non utilizzato. Da decenni si discute cosa farne con beghe di piccolo cabotaggio tra Demanio, Enti Locali e Marina Militare. Se si mettesse questo luogo a disposizione del mondo in modo trasparente (per esempio mettendo il sito in una Fondazione) non sarebbe difficile trovare capitale per farlo diventare un centro mondiale di storia dell’arte anche sviluppando nuovi sistemi di trasporto (metropolitana sottomarina) per accedervi. Un simile centro di cultura dell’arte e della sua storia porterebbe in Italia capitali, lavoro, risorse.

Sanità: l’offerta sanitaria sia pubblica che privata nel Nord Italia è a livello top nel mondo. Oggi è crescente il turismo sanitario dei cittadini di reddito medio – alto dai paesi in via di sviluppo che hanno ancora sistemi sanitari modesti. Non vi è motivo di non pensare che le regioni del Nord Italia possano attrarre, anche costruendo nuove infrastrutture private, utenti sanitari da tutto l’Est Europa, dal Nord Africa e dal Medio Oriente. Si tratta anche qui di coniugare lo sforzo pubblico con investitori e assicurazioni private.

Riqualificare la Spesa Pubblica: poichéla Spesa Pubblica non può crescere anzi, dovrà scendere bisogna riallocarla spostando risorse improduttive per recuperare efficienza e spostarle su voci che invece creano sviluppo. Un chiaro esempio sono gli asili nido. In Italia vi è una carenza altissima di questo servizio e l’offerta privata è molto cara; ciò toglie dal mercato del lavoro molte donne. Se si lanciasse un piano per creare posti nido a prezzi accessibili (attraverso un parziale contributo alla domanda da parte dello Stato) si darebbe lavoro a nuove persone, giovani educatori, e si manterrebbe nel mercato del lavoro una parte dell’occupazione femminile creando così maggiori redditi disponibili e quindi sviluppando l’economia oltre che la qualità della vita delle persone. La Germania da cinque anni investe in questo senso con risultati importanti.

Il ruolo dello Stato e degli Enti Pubblici: per realizzare questi progetti serve che la struttura pubblica sia flessibile nel facilitare il rapporto con i privati, ma anche che faccia degli investimenti o dei co-investimenti infrastrutturali. Non essendoci risorse aggiuntive bisogna trovarle cedendo tutte quelle attività mobiliari e immobiliari che possono essere gestite dai privati senza alcuna differenza per i cittadini. Lo Stato ha ancora quote azionarie importanti in società che possono essere facilmente privatizzate; così pure gli Enti Locali nelle utilities che sono fonte più di potere che di servizio ai cittadini; infine il patrimonio immobiliare pubblico è ancora ingente, ma non è stato avviato alcun piano serio di dismissione. L’Ente Pubblico deve fare progetti di lungo periodo che i privati non fanno non continuare a fare quello che i privati fanno bene. E comunque si tratta di fare delle scelte e la scelta di non cambiare e non innovare è deleteria.

Un esempio è quello del fondo strategico promosso dal Ministero dell’Economia attraversola Cassa Depositie Prestiti: 3 miliardi di euro per investire in aziende importanti da mantenere italiane. Di fatto un private equity fatto dallo Stato. Ne abbiamo davvero bisogno visto che poi queste aziende dovranno essere ricedute? C’è davvero un contributo di valore per la società in questo tipo di operazioni? Penso proprio di no. Non sarebbe stato meglio usare questi ingenti risorse per progetti che invece creino nuove iniziative e nuovo lavoro? Ma per farlo ci vorrebbe più coraggio e soprattutto una capacità progettuale e imprenditoriale che ci sta mancando.

Fondazioni Bancarie. Hanno risorse importanti immobilizzate nelle banche e in patrimoni liquidi che sono investiti “finanziariamente” per poter generare redditi per donazioni. Serve domandarsi se anche questo paradigma non sia in parte da rivedere. Anche senza arrivare alle posizioni “forti” di Zingales bisognerebbe valutare anche utilizzi alternativi del capitale a fini di sviluppo del territorio e di progetti locali.

Mobilitare capitali privati. Si è visto sinora cosa dovrebbe fare il settore pubblico e più in generale le istituzioni, ma certo servono anche molti capitali privati. In Italia essi non mancano.

La ricchezza liquida (dati di Banca D’Italia) è oltre 1.5 volte il PIL, cioè circa 3.000 miliardi di euro. Ma gli imprenditori e i “ricchi” che ne detengono una gran parte non paiono propensi a investirla in progetti a lungo termine. Pochi imprenditori si sono concentrati per far crescere le proprie aziende a livello internazionale. Molti le hanno cedute e vi è una grande tendenza a fare investimenti finanziari e di private equity, cioè ad acquisire aziende esistenti (prevalentemente in Italia e in settori protetti) per poi rivenderle. Ciò non crea sviluppo. Inoltre l’attenzione si concentra (lo vediamo quotidianamente sui giornali e ce lo ricorda Della Valle) sulle poche aziende nazionali, per esempio Generali e RCS, che offrono visibilità e potere.

Sono tutti segnali che fanno ritenere che la spinta imprenditoriale in Italia stia scemando e che i detentori della ricchezza stiano pensando a conservarla piuttosto che a rimetterla in gioco per coniugare interesse personale e interesse collettivo. Pertanto abbiamo bisogno di attirare capitali stranieri. Se si viaggia in Asia o negli Emirati si vede come lì vi sia il coraggio di avviare progetti ambiziosi e di lungo termine. Deve essere fatto uno sforzo per attirare questi capitali anche da noi vedendoli non come una minaccia, ma anzi come un contributo importante.

Chi avesse resistito e fosse arrivato a questo punto potrebbe forse anche concordare, ma probabilmente starà pensando che tutto questo è impossibile che avvenga in Italia e avrebbe ragione. È davvero difficile credere che questo paese superi la conservazione d’interessi e mentale che ci sta bloccando. Ciò che è grave è che tale conservazione attraversa tutta la società italiana dai sindacati, agli imprenditori, al Settore Pubblico e anche a molta parte delle cosiddette “elite culturali” impegnate in un “Porta a Porta” nazionale più attento all’audience e al proprio orticello che a una sincera voglia di approfondire e sperimentare.

Ma questa difficoltà non deve far demordere dal ricercare grandi cambiamenti proprio perché le altre strade che ci vengono proposte (per esempio: venture capital, mantenere le aziende italiane e diffidare del capitale straniero, mantenere la mano pubblica nelle utilities, ecc) non sono soluzioni, ma anzi un freno al cambiamento. Quindi meglio avviare una battaglia forse difficilissima, ma non ancora persa, piuttosto che raccontarsi “storie” che certamente ci faranno perdere. Tra l’altro il cambio di paradigma implica passare da un dibattito tutto ideologico a una discussione pragmatica che vada a esaminare davvero cosa funziona e cosa non funziona, stimolando l’innovazione e una nuova imprenditorialità che abbia anche una visione collettiva del proprio agire.

C’è infine una soluzione alternativa estrema a questo immobilismo d’interessi e culturale e cioè promuovere l’emigrazione di massa nei prossimi anni dei nostri giovani e riconoscere definitivamente che l’Italia non è un paese per giovani (di età e d’idee).

 

Luciano Balbo



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