3 aprile 2012

L’ARANCIONE NON È UN COLORE PER TUTTI?


La manifestazione di sabato scorso “libera la sedia” ha riaperto il dibattito sul “modello Pisapia” anche se il principale obbiettivo era quello di far capire a Roberto Formigoni che la Giunta da lui presieduta è arrivata al capolinea e lui insieme a lei. Dopo l’ultimo scandalo dell’amministratore Belsito della Lega nord, non c’è partito della maggioranza regionale che si salvi. L’aria di Roma è malsana per tutti, anche per quelli che si sono sempre dichiarati vaccinati.

Ma torniamo al “modello Pisapia”. Nei giorni che hanno preceduto la manifestazione molte autorevoli teste pensanti milanesi si sono domandate – non è certo la prima volta – se questo modello fosse in qualche modo riproducibile a un livello politico superiore a quello comunale. La domanda non è peregrina ma presuppone che tra chi dibatte vi sia univocità sul concetto, posto a patrimonio comune, di “metodo Pisapia”. Ma di questo ho fortissimi dubbi. Stefano Boeri nell’intervista rilasciata a Rodolfo Sala sulla Repubblica di mercoledì scorso, dice: «Io non credo agli automatismi, a una Lombardia arancione che segue il nostro modello. Ma ricordo che a Milano abbiamo vinto dopo aver costruito un’idea nuova di città». Se la ragione della vittoria milanese è l’aver costruito un’idea nuova di città, non si capisce perché non si debba costruire un’idea nuova di Regione.

Ma forse il linguaggio di Boeri pecca di architettismo. A mio giudizio la ragione fondamentale della vittoria milanese è che si è costruita un’idea nuova di “cittadinanza” non tanto di città. Cittadinanza nel senso politico e sociale, nulla a che vedere col significato amministrativo e giuridico del termine, anche se questi due aspetti ne fanno parte. Cittadinanza vuol dire capacità di tutela dei propri diritti, capacità di espressione non mediata delle proprie opinioni, capacità di influire sulle decisioni di chi ci governa attraverso il diritto all’ascolto, scegliere i propri rappresentanti, ossequio ai propri doveri come contropartita dei propri diritti, compreso il diritto a un linguaggio civile (il potere gentile). Tutto questo condito con un appello ai cittadini – raccolto a Milano – perché esprimano in maniera organizzata le loro idee e le loro proposte e con l’impegno di introdurre forme istituzionali di partecipazione. Ciliegina sulla torta: la certezza di non rivedere al potere le solite facce.

Tutto questo ha una dimensione solo comunale? Qualcuno mi deve spiegare perché. Temo che la verità stia altrove: il propugnare queste idee a livello regionale, per quanto giuste e nuove, richiede uno sforzo economico più che organizzativo, sforzo che solo i partiti uscenti e che hanno goduto dei rimborsi elettorali possono mettere in campo ma non lo faranno mai a difesa del nuovo, perché queste idee li metterebbero definitivamente da parte, almeno nelle attuali dirigenze. Ed ecco allora tutti a ragionare secondo i vecchi schemi e molti tornano a parlare di alleanze, di schieramenti, di collocazioni, parole che sbiadiscono a mano a mano che arrivano al voto le nuove generazioni, quelle che sono indifferenti perché rinchiuse nel recinto di Facebook, di Twitter o che, se non lo sono, ragionano con la propria testa e si basano su quello che a loro dicon occhi, orecchie e borsellino vuoto. Se si continua a ragionare alla vecchia maniera vuol dire che nei fatti non si vuole il cambiamento o almeno non si riesce a crederci e si vive nella speranza che il vecchio modo di far politica ci tiri ancora fuori dai guai.

Vecchi, non solo anagraficamente, per vecchie speranze.

Luca Beltrami Gadola



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