27 marzo 2012

E ADESSO SVILUPPO E VENTURE CAPITAL


In una recente vignetta di Altan su Repubblica, il solito personaggio straripante sul tavolo dice: “Continuo a pensare alla crescita, ma non mi viene in mente niente”. Come molte vignette del grande di Aquileia, vale un articolo di fondo.

Continuiamo a parlare di crescita – parola che significa tante cose diverse – ma non si sa come perseguirla in tempi stretti, senza cadere nelle trappole che la sfigurerebbero: l’aumento del debito per spese correnti, lo scempio dell’ambiente con i condoni edilizi o quei provvedimenti, dai condoni fiscali in giù, che danno una passeggera sistemata ai conti, ancor più degradando il livello civile.

Quando lo Stato è stretto nella camicia di Nesso di un debito siderale, a parte il doveroso omaggio a chi (Craxi e De Mita in primis) ce l’ha regalato, non c’è molto che il “pubblico” possa fare. La crescita ora può venire solo dagli investimenti privati: i grandi assenti di questa fase storica. Le statistiche lo mostrano: è la latitanza degli investimenti a ridurre la nostra competitività; lo dimentica chi, alla ricerca dello sviluppo perduto, solo bastona il fattore lavoro. La globalizzazione è positiva vista dallo spazio, aumenta il benessere complessivo; esaminata più da vicino ha vincitori e vinti. Fra questi, il posto d’onore va alle classi medie dei paesi sviluppati: vivranno una vita più tormentata di quella, tutto sommato tranquilla, loro toccata nell’ultimo mezzo secolo.

I profitti, permettendo gli investimenti, generano possibilità di lavoro; è questa la loro motivazione sociale per l’economia classica, che conosceva il libero commercio, ma non pensava che i capitali potessero migrare pigiando una tastiera. I profitti di oggi generano investimenti sì, ma per lo più lontano da noi: là, non qua, saranno i posti di lavoro di domani.

Un parziale sollievo a tale busillis potrebbe venire da un aumento delle nuove imprese. Chi ha le spalle abbastanza larghe investe altrove? Cerchiamo allora di agevolare le nuove attività, sia per l’iter burocratico (tema di enorme peso, ma che qui trascurerò), sia per il sostegno finanziario, sul quale invece resto.

Tali iniziative devono poter trovare, se ben divise, il sostegno finanziario a loro adatto; purtroppo ciò non accade proprio per quelle che, per il loro alto tasso d’innovazione, anche tecnologica, più ne hanno bisogno. Un imprenditore mi disse una volta che Dio infligge alle iniziative sette anni di vacche magre, solo dopo di esse respirano; non aveva previsto Google (che a dieci anni dalla nascita in un sottoscala era una delle principali imprese mondiali), ma aveva qualche ragione. Per questo le nuove imprese, specie quelle ad alto contenuto innovativo, hanno bisogno di capitale proprio, che può sopportare gli inevitabili alti e bassi della fase iniziale. Non possono contare sul credito, cui servono previsioni attendibili. Sbaglia chi rimprovera le banche per il loro scarso sostegno alle iniziative: non è il loro mestiere.

Stiamo attenti a non farci fuorviare dalle annose diatribe banca/impresa; le imprese sane, se nella crisi hanno qualche ragione in più, di solito trovano il credito che serve. Chi non lo trova dovrebbe, anziché lamentarsi, investire più soldi nell’impresa, o far entrare nuovi soci. Se in essa non si crede, difficile che lo facciano altri: almeno se si vuol essere imprenditori.

Dove invece il sistema – in Europa e in specie da noi – mostra un grave deficit strutturale è nel finanziamento delle imprese innovative: le differenze di norme fra i vari Stati, le diverse lingue e culture ritardano la nascita di un vero mercato di sbocco europeo per i loro prodotti. Manca quasi del tutto un ceto di professionisti di Venture Capital (VC): il mercato continentale è troppo segmentato, e quello nazionale troppo piccolo per sostenere la nascita di seri fondi di VC locali. Ben diversa la situazione negli Usa: là un grande mercato omogeneamente regolato e un’unica lingua aiutano la nascita di imprese innovative, nonché la loro valutazione grazie a esperti che le società di VC possono pagare, avendo tale mercato di riferimento. Da noi la pratica scomparsa della grande impresa accentua ancora il problema, avendo essa sempre fatto da incubatore di competenze e terreno di sperimentazione di realtà che poi altrove si sviluppano meglio.

A parte pochi benemeriti pionieri del VC italiano (fra cui Elserino Piol, il gruppo di Next e Zernikemetaventures), il finanziamento delle nostre start up innovative è affidato alla regia di qualche Università, o di pochi benemeriti Business Angel, che affiancano i volonterosi innovatori nei primi passi in un ambiente che all’innovazione davvero non è propizio. Soprattutto per l’ultimo e ancor più grave ostacolo alle nuove imprese: la diffusione di una vasta corruzione e della sua vicina di casa, la criminalità. L’una e l’altra, si sa, preferiscono avere a che fare con realtà consolidate, ricche di influenza e denari. E le start up non riescono a partire. Ridurre il peso di queste due bestie nere è dunque opera ardua e lunga, ma imprescindibile. Vaste programme, certo, ma necessario per la crescita; l’omone di Altan sarebbe certo d’accordo.

 

Salvatore Bragantini

 



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