27 marzo 2012

VENDERE BENE MILANO TRA CULTURA E MUSEI


Le grandi svolte nella vita e nella gestione di Milano sono sempre state accompagnate dalla nascita e dalla crescita di realtà culturali innovative che hanno rinverdito e giustificato il ruolo di leadership della città anche e soprattutto dopo periodi di decadenza economica e politica. Per non eccedere nei richiami storici mi limito a ricordare come nel dopoguerra abbiamo visto lo sviluppo come realtà nazionale dei teatri pubblici, dalla Scala ricostruita prima ancora delle case dal sindaco Greppi, al Piccolo Teatro che diventa Teatro d’Europa quando Milano, sindaco Aniasi, diventa sede della rete della “Città d’Europa” che ebbero grande parte nello sviluppo di quella che purtroppo è restata l’unica istituzione democratica dell’odierna Unione Europea, il Parlamento votato direttamente dai popoli.

La scelta di quelle Amministrazioni comunali riformiste, come vuole essere quella guidata da Giuliano Pisapia, fu quella di privilegiare l’istituzionalità, la durata nel tempo, la solidità dell’impresa, tanto che oggi la realtà culturale cittadina poggia quasi unicamente su quei pilastri gettati dal genio di alcuni e dalla lungimiranza di chi governò la città. L’importanza e la validità della scelta istituzionale si verificò negli anni settanta e ottanta nei quali giunte politicamente omologhe a Milano e Roma fecero, in ambito culturale, scelte profondamente diverse che in breve tempo dimostrarono come la scelta “effimera” delle scintillanti estati romane dell’assessore architetto Nicolini non lasciasse di fatto seguito rispetto alle scelte apparentemente meno fantasiose dei meno noti assessori alla Cultura milanesi, che impegnarono i fondi per acquisire l’ex collegio delle Stelline e la fabbrica dismessa dell’Ansaldo.

Questa lunga premessa mi serve per dire che non mi convince l’impostazione che mi pare l’assessore Boeri voglia dare al Museo dell’Ansaldo con l’utilizzazione del nuovo capannone realizzato da Chipperfield di fatto come “spazio espositivo rotante”, mentre le collezioni, discutibili come valore intrinseco e come impostazione “troppo colonialista”, verrebbero sistemate in un’altra ala del palazzo stesso. Se le collezioni, il “contenuto” del Museo non sono considerate di valore tale da “reggere” l’istituzione e la stabilizzazione del Museo stesso, come sostiene Boeri e come non ho alcun motivo di credere che non sia, ritengo sia sbagliato affidarsi totalmente al “segno” architettonico, al valore dell'”involucro” per trovare una ragion d’essere al luogo e allo specifico: in poche parole, penso che se non abbiamo abbastanza materiale per istituire un Museo dei popoli, che resta un’idea bellissima, non credo che potremo rimediarvi sostituendovi di fatto uno “spazio espositivo” pur molto bello a disposizione di “performance” più o meno sperimentali.

L’eredità di questi anni di spettacolarizzazione portata all’eccesso ci ha fatto perdere l’attenzione al valore anche filologico delle realizzazioni, che garantisce la durata nel tempo di queste operazioni.

Le ultime due operazioni “museali” di grande rilievo realizzate a Milano, il Museo del Novecento e i recentissimi “Musei italiani” nel palazzo Anguissola di piazza della Scala sono state un grande successo di pubblico, ma, a mio avviso, sono debolissime dal punto di vista della consistenza museale. I Musei Italiani hanno il principale merito di aver restituito alla città un palazzo magnifico, ma le opere esposte non danno un particolare valore aggiunto, mentre per il Novecento è evidente a tutti come la prevalenza dell’architetto-allestitore e ristrutturatore rispetto al conservatore sia tale che è la struttura scenica dell’Arengario la ragione principale del successo dell’operazione, mentre il potenziale di una Milano che fu seconda solo a Parigi nell’architettura e nell’arte almeno del primo Novecento non risalta certo appieno nelle sue sale.

Io credo che il sistema dei musei di Milano debba essere pensato globalmente e con un occhio e una mente da “conservatori” professionisti e non con quello degli urbanisti (niente equivoci, non c’è nessuna polemica con Boeri in ragione della sua professione!). È vero che negli ultimi anni, dal Guggenheim di Bilbao al Museo di arte contemporanea di Mexico City, spesso è il segno architettonico a marcare in maniera pressoché totale l’iniziativa, ma si tratta di interventi realizzati in un “deserto culturale” cittadino che certo non è paragonabile alla realtà della nostra città. Noi abbiamo il “problema” della visibilità delle collezioni di Brera o del Castello Sforzesco ovvero quello di ridare slancio e significato a veri e propri tesori semi-abbandonati, come il Museo della Scienza e della tecnica, da rimettere in collegamento con la zona romanica attigua di Sant’Ambrogio e piazzale Aquileia.

Non ci mancano i palazzi da recuperare a un uso museale espositivo, senza bisogno evidentemente di dare seguito alla costruzione del “valorizzatore di aree” che è stato il MAC di Liebeskind, vagante fra Santa Giulia e CityLife, senza che ci fosse uno straccio di idea su cosa metterci dentro di sensato; abbiamo Palazzo della Ragione, Arengario due, perché no Palazzo Beccaria che, con la sua struttura a mini Uffizi quadrato, sarebbe a mio avviso una bella sede per le collezioni dell’Ottocento milanese e lombardo che sono un po’ spruzzate qua e là nei vari musei cittadini e nelle collezioni private di tanti che cercano, a volte infruttuosamente, spazi per condividere la visione di opere magnifiche con un pubblico più ampio. E ancora, perché non pensare a stabilizzare la porzione di Palazzo Marino sala Alessi come Museo della “partecipazione civica”, con accesso diretto alla Casa Comunale e il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo collocato in maniera non solo decorosa, ma pienamente rispettosa del suo significato simbolico e storico? Se infine ottenessimo, sogno a occhi aperti, grazie al Pgt di Lucia De Cesaris la disponibilità del carcere di San Vittore e del Palazzo di Giustizia, a seguito di un trasferimento della Città della Giustizia sull’odierno Ortomercato, che bisogno avremmo di costruire l’impossibile Beic di Porta Vittoria…

Non ci mancano le idee, nostre e dei cittadini milanesi che sull’onda della nostra spinta verso la partecipazione ci inondano letteralmente di proposte. Se siamo accorti non ci mancano nemmeno i fondi: tra partecipazione dei privati che non mancherebbe su progetti ben strutturati e destinazione di scopo della “tassa di soggiorno” penso che potremmo investire nei prossimi tre anni almeno 60 milioni di euro sul solo sistema museale, una somma ragguardevole e sufficiente a farci fare un salto di qualità importante.

Ma la condizione indispensabile, a mio avviso, è l’esistenza di un progetto condiviso di sistema elaborato dai migliori esperti disponibili che lavorino con una regia molto attenta dell’assessorato alla Cultura: se si decide in tal senso, non sarà particolarmente difficile dare seguito al proposito, essendoci potenzialmente disponibili tanto gli uni quanto l’altra.

Io, come altri, ho subito il fascino estetizzante del Manifesto Futurista di Marinetti e la conclamata volontà di distruggere musei e biblioteche, ma come tutti mi sono accorto in fretta che si trattava di un mirabile virtuosismo letterario e non certo di un programma di politica culturale: forse Giovanni Agosti nel suo “Le rovine di Milano”, in qualche modo “dedicato” alla vittoria arancione di maggio, esagera nel rigore intellettuale e morale, ma non possiamo prescindere da un progetto per il quale utilizzare le competenze specifiche e non improvvisate. E a nessuno sfugge quanto potente sarebbe come attrattore turistico, economico e sociale un sistema così strutturato.

Nel momento di impostare con la manovra di bilancio 2012 l’intero ciclo della consigliatura Pisapia aprire un dibattito su questi temi è un dovere.

 

Franco D’Alfonso



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