5 marzo 2009

EXPO. L’OCCASIONE DEL PARCO SUD


La scorsa estate, sul numero di Dedalo (la rivista Assimpredil Ance) dedicato al tema del verde, parlando dei parchi dell’area milanese avevo anche toccato il tema del Parco agricolo Sud Milano, tema che mi sta molto a cuore.

All’idea del Parco Sud avevo cominciato a lavorare in sede PIM fin dal ’72 (quando sia il nome sia l’idea stessa del Parco erano ancora da inventare); ed ero tornato a occuparmene un po’ di anni dopo, quando la Regione, con la l.r. 86/1983, aveva riconosciuto una sola categoria di parchi, quella dei parchi naturali (per tutelare ovviamente i “santuari della natura”); allora con Di Fidio, il dirigente del settore parchi regionale, si era a lungo lavorato alla proposta che ha poi portato alla l.r. 41/1985 che, integrando la precedente, aveva introdotto la nuova categoria dei parchi di cintura metropolitana, parchi destinati alla tutela delle aree verdi strategiche per il riequilibrio ecologico delle aree metropolitane, in particolare delle aree agricole periurbane, aree preziose quindi sia per i loro caratteri specifici che per la loro collocazione, anche in assenza di valori naturalistici; aree che in tutta Europa con la politica delle green belts ci si premurava da tempo di tutelare.

Con questa legge dunque la politica delle green belts per la prima volta faceva ufficialmente la sua comparsa anche nel nostro paese e con questa legge nel milanese veniva preparata la strada al Parco Sud (che infatti era nell’elenco dei parchi di cintura da istituire, allegato alla legge).

Perché si è inventato, allora, quel nuovo parco e quella nuova tipologia del parco agricolo? Per cercare di tutelare e rivitalizzare lo straordinario paesaggio agrario della bassa milanese e lombarda, la ricchezza e il meraviglioso equilibrio di un’agricoltura giocata sulla sapienza dell’uso integrato delle risorse, della turnazione delle culture, della tutela della fertilità del suolo, dell’uso e della regimazione delle acque, e sulle piantate, le siepi, le colture di ripa, i boschi e i cedui; e lo splendore dell’architettura rurale della bassa, delle grandi cascine ma anche dei castelli, dei monasteri, delle abbazie, delle pievi, dei mulini.

Quel sud, il nostro sud creato dai cistercensi e dagli umiliati secoli addietro, ora non c’è quasi più. Esistono ancora vaste aree agricole, diventate enormi spianate, diventate, qualcuno dice, il “deserto agricolo”, l’agricoltura intensiva della chimica e delle multinazionali; aree e paesaggi tagliati dalla trama infrastrutturale onnipresente, aree minacciate ogni giorno di più dal cemento e dai ritmi forsennati del consumo di suolo in atto.

“Si può ancora fare un parco, in queste condizioni?” mi chiedevo in quella riflessione su Dedalo. “Capovolgiamo il discorso. E’ necessario, è indispensabile fare il Parco, in queste condizioni ” era la risposta.

Fatta salva la necessità di aggiornare gli obiettivi alla nuova situazione.

Fare il Parco Sud vuol dire oggi in primo luogo arrestare il forsennato consumo di suolo. Dire basta alla sottrazione di aree agricole a scopo edificatorio. La città deve ristrutturarsi su se stessa, senza più espandersi.

Fare il Parco Sud vuol dire cercare, inventare, sperimentare in vivo una nuova strategia territoriale, una nuova agricoltura per la città: prodotti freschi, filiera corta, vendita diretta, più biologico, più agriturismo (e quindi recupero degli edifici storici rurali), più educazione ambientale, più settimane verdi, anche al posto  di quelle bianche: tante idee da far maturare e da sviluppare, guardandosi anche attorno, ad esempio a quello che stanno sperimentando nel “triangle vert”, a sud di Parigi. Una nuova agricoltura non contro la città, o estranea alla città, ma per la città, al servizio della città, che deve necessariamente voler dire anche nuovo paesaggio, con più verde, più boschi, più ambiente, ritorno alla valorizzazione delle acque, un po’ di aree per la fruizione e per il tempo libero, in prossimità delle cascine, dei mulini, dei castelli, delle abbazie, dei corsi d’acqua, dei punti di vendita dei prodotti agricoli, dei punti di maggiore interesse paesaggistico. Un nuovo paesaggio che la gente possa riconoscere come paesaggio del parco, in cui si possa identificare.

Ancora, fare il Parco Sud significa dar vita ad una trama di percorsi verdi, alberati e ombreggiati, ciclabili e pedonali, idonei a garantire una vera e sicura fruibilità dell’intero parco.

E infine significa anche progettare, dimensionare ed organizzare le “teste di ponte urbane” del Parco, parchi pubblici facenti parte integrante del sistema delle aree verdi della cintura urbana milanese, aree di libera fruizione più vaste ed estese di quelle disseminate all’interno del parco agricolo, aree destinate ad essere in sé luogo per lo svago e il tempo libero dei cittadini, ma anche punti di partenza e di raccolta dei percorsi verdi ciclopedonali di penetrazione al Parco agricolo, ai navigli, all’Adda, al Ticino, al sistema verde regionale: poli verdi urbani che potrebbero occupare una frazione assai modesta della superficie del Parco, diventandone tuttavia le porte e il simbolo, i luoghi che la gente imparerebbe a riconoscere e a identificare come Parco Sud.

In tempo di Expo, questo tema può avere anche un risvolto di evidente attualità. Così concludevo, infatti, quelle considerazioni, la scorsa estate:

“Con l’Expo 2015 alle porte, che dovrebbe essere tutta centrata sui temi della nutrizione e dell’energia, cosa ci può essere per Milano di più affascinante, e di meno effimero e più duraturo, meno superficiale e più strutturale, che di mettere al centro dell’Expo stessa questo tema della propria grande storica straordinaria area agricola sud, per affrontarlo è già pronto (diciamo, quasi pronto) un altrettanto straordinario strumento metodologico, che si chiama Parco Agricolo Sud Milano ?”

Avevo da pochi giorni svolto queste considerazioni, quando è uscito sull’Espresso (n. del 17.7.08) un articolo di Carlo Petrini, “Idea verde per Milano Expo”, che avanzava la stessa identica proposta, con ricchezza di argomentazioni sulle potenzialità e sulla rilevanza del Parco Sud e soprattutto sul ruolo che vi può avere la “nuova agricoltura per la città”, considerata ovviamente il motore essenziale di un parco agricolo; con minore attenzione forse alla valenza urbanistica che potrebbe avere, per Milano e per l’area milanese, un investimento vero su questo Parco.  Discorsi sui quali avremo tempo e modo di tornare, anche perché da allora non è che l’idea abbia avuto un successo travolgente: infatti al timone di comando della barca Expo c’è la Bracco e non, per esempio,  Carlo Petrini.

La sottolineatura essenziale rimane tuttavia quella del Parco Sud come strumento metodologico essenziale per affrontare in modo coordinato e coerente con gli obiettivi prefissati gli ineludibili problemi di trasformazione territoriale di un’area vasta e complessa (mezza provincia di Milano, press’a poco).

Il rischio del Parco Sud non è quello della sottrazione di qualche area marginale o interstiziale agli abitati. I rischi veri sono altri.

Quello, ad esempio, della cementificazione di aree agricole affatto marginali, aventi caratteri di continuità e compattezza e quindi da considerarsi sacre e inviolabili, per strutture dichiarate a priori compatibili, senza alcun serio studio di possibili localizzazioni alternative.

O quello della cementificazione selvaggia da grandi infrastrutture, soprattutto stradali, paesaggisticamente devastanti (sia perché i valori del paesaggio agrario sono fragili, fatti di segni che non possono resistere alle colate di cemento; sia per l’incapacità di progettare opere stradali che non siano solo colate di cemento, esibizioni d’ingegneria “muscolare”, senza alcuna capacità o attenzione all’inserimento paesaggistico; vedi ad esempio il disastro paesaggistico della Milano Torino e più in generale dell’alta velocità all’italiana).

Più in generale, il rischio più serio è quello di non riuscire a far decollare davvero il Parco nella realtà, con trasformazioni territoriali coerenti col disegno del Parco e come tali leggibili dai cittadini e dall’opinione pubblica: le nuove aree verdi urbane (le teste di ponte urbane del Parco, per me la priorità assoluta); i nuovi boschi e il nuovo equipaggiamento vegetale della campagna; le nuove piste ciclabili; la valorizzazione dello straordinario storico sistema delle acque; il recupero e la rivitalizzazione delle antiche strutture storiche, le cascine, i mulini ecc.; soprattutto, il progressivo affermarsi nel Parco (non sulla carta, ma nel vivo della sperimentazione sul territorio) della “nuova agricoltura per la città”, che si dovrà portare appresso anche un nuovo paesaggio. E per questo, le idee di Carlo Petrini potrebbero tornare molto utili.

Francesco Borella



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