6 marzo 2012

UNA VOCE DALL’INTERNO: IL SAN RAFFAELE SOPRAVVIVERÀ


A chi pone in forma di interrogazione “Sopravvivrà il San Raffaele?” quella che nel titolo è una affermazione convinta e motivata, è utile ricordare cosa sta avvenendo oggi: ogni giorno migliaia di persone percorrono i corridoi che portano all’ospedale, sostano nelle sale d’attesa degli ambulatori, entrano nelle camere operatorie, eseguono indagini diagnostiche, animano il Pronto Soccorso. Si, a quasi un anno dall’inizio della vicenda legata al rischio di fallimento, il San Raffaele non solo sta sopravvivendo, ma è vivo e attivo.

Altre migliaia di persone, i dipendenti, medici, paramedici e amministrativi dell’ospedale, svolgono diligentemente il proprio lavoro al servizio dei pazienti. La qualità delle prestazioni è, ogni giorno, la stessa che ha fatto la reputazione di eccellenza dell’ospedale. È questo un quadro idilliaco, viziato da un pregiudizio favorevole di chi per ventiquattro anni ha dedicato la propria professionalità, il proprio impegno, la propria progettualità a questa struttura? Assolutamente no; perchè è anche ben chiaro ed evidente che chiunque lavori al San Raffaele è fortemente scosso dagli eventi e dalle rivelazioni sorprendenti dell’ultimo anno.

L’inquietudine e l’incertezza per il futuro affiorano da ogni conversazione ogni giorno, in ogni momento. Proprio per questo è ancor più ammirevole il fatto che l’intera struttura, per quanto apparentemente acefala, continui a funzionare. Non si tratta di un miracolo, ma della conseguenza di una precisa scelta organizzativa e manageriale che ha saputo motivare le persone, coinvolgerle in un chiaro anche se complesso e ambizioso progetto, delegando compiti e responsabilità e sapendo riconoscere il merito.

Sarà la storia a dare un giudizio complessivo e definitivo sul personaggio e sull’uomo Don Verzè, con le sue luci e le sue ombre. Marco Vitale in una lucida analisi sul Corriere della Sera dell’8 gennaio 2012, ne ha ben definito le caratteristiche di “italiano”, di quella tipologia di personaggio cioè portatore dei difetti atavici che permeano i comportamenti di molti nel nostro paese, in primo luogo l’insofferenza per le regole, e la megalomania. Ma anche di “antiitaliano” dove per antiitaliano Vitale intende persona desiderosa e comunque consapevole della necessità di “guardare oltre”, fuori dall’Italia, fuori dalla “provincia italiana” per progredire e per costruire il nuovo. Don Verzè era aperto al mondo, ne era avidamente curioso.

E non solo o non tanto per spirito missionario, quanto per la consapevolezza che la conoscenza di altre culture, la contaminazione con altre culture, è foriera di novità, di progresso. Don Verzè chiedeva ai propri medici, ai ricercatori, ai docenti, di fare esperienza all’estero, possibilmente nelle istituzioni anglosassoni e nordamericane più prestigiose, e di riportare nel suo istituto le migliori esperienze fatte. Non è qui il caso di ripetere i cardini della sua filosofia e del suo pensiero, che si riassumono nella libertà di ricerca, nella responsabilità individuale, nella centralità della persona, nella necessità di considerare sempre, sul piano antropologico, la stretta interazione e integrazione fra corpo, spirito e anima.

Che la crescita e l’espansione si basassero sul debito era noto a tutti, almeno dalla fine degli anni novanta. L’istituzione cresceva, e con essa crescevano i debiti. “La provvidenza seguirà” era solito dire Don Verzè. Perché allora siamo arrivati a una crisi così acuta? La crisi, è bene ricordarlo, è dovuta soprattutto a investimenti e scelte non oculati, non legati all’attività core della istituzione (assistenza, ricerca e didattica) ma a scelte manageriali di cosiddetta “diversificazione” che hanno comportato solamente perdite economiche. Non è compito di questo articolo affrontare altri aspetti di cui si sta occupando la magistratura e cioè gli illeciti amministrativi, le disinvolte relazioni con il potere politico, la contaminazione con interessi personali, la corruzione. Se ne occupi il tribunale, sia fatta piena luce, e qualora se ne verificasse la realtà e la consistenza, si cerchi di capire cosa non ha funzionato nei meccanismi di controllo e si prendano provvedimenti perché situazioni simili non abbiano a ripetersi mai più.

Ma questa operazione non può e non deve cancellare il valore di ciò che di buono è stato fatto; che è ciò con cui i nuovi acquirenti, i nuovi gestori, si troveranno a fare i conti e che dovranno salvaguardare. Questo valore è stato creato in soli quarant’anni, e anche questo è un evento eccezionale: strutture simili nel resto del mondo hanno una storia almeno secolare.

La storia del San Raffaele inizia nel 1971 quando, il 31 ottobre, viene ricoverato il primo paziente. La convenzione con la Facoltà di Medicina dell’Università Statale di Milano nel 1972 ne fa un polo di insegnamento con il risultato di fare arrivare un gruppo di medici e di docenti giovani, qualificati, motivati e stimolati dalla nuova opportunità, in una struttura che contemporaneamente viene riconosciuta dal Ministero della Sanità come IRCCS, cioè istituto clinico di ricerca, focalizzato, all’inizio, sulle malattie metaboliche, in particolare sul diabete. L’ospedale cresce velocemente anche sul piano architettonico e strutturale. Nel 1988 viene aperto il Pronto Soccorso, nel 1992 si inaugura il DIBIT (Dipartimento di Biotecnologie), un intero edificio completamente dedicato alla ricerca e alla didattica. Le prime aree di ricerca attivate sono la genetica, la biologia cellulare e l’immunologia cui si aggiungono alla fine degli anni ‘90 la terapia genica, la biologia delle cellule staminali e lo studio di meccanismi molecolari alla base delle malattie.

Nel 1996 nasce l’Università Vita-Salute San Raffaele che, a oggi, ospita le Facoltà di Medicina, Psicologia, e Filosofia. L’attività clinica e di ricerca dell’IRCCS San Raffaele si integra quindi con l’attività didattica e formativa svolta all’interno dell’Ateneo. Nel 2009 il DIBIT 2, di ben 88.000 mq si aggiunge al DIBIT1 facendo dell’IRCCS San Raffaele il più grande Parco Scientifico in Italia, e uno tra i maggiori in Europa. Il San Raffaele, strutturato in dodici dipartimenti clinici e sette divisioni di ricerca, ospita tre grandi Istituti di Ricerca: HSR-Tiget (Istituto San Raffaele-Telethon per la Terapia Genica), INSPE, (Istituto di Neurologia Sperimentale) e DRI (Diabetes Research Institute). Le pubblicazioni scientifiche in un anno sono state complessivamente 759 di cui 24 pubblicate sulle quindici riviste scientifiche maggiormente qualificate a livello internazionale (I.F. superiore a 15).

L’elencazione apparentemente arida e neutra di queste realizzazioni e di questi risultati, tratti dalla documentazione ufficiale dell’Istituto, non evidenzia, ma lascia comunque intravvedere, la ricchezza del capitale umano che le ha prodotte. Né evidenzia il ricchissimo lavoro di progettazione, di elaborazione culturale, con i suoi confronti dialettici, i suoi scontri anche, che ha portato a realizzare una struttura in cui ricerca di base, ricerca clinica, e applicazione dei risultati della ricerca al letto del paziente hanno anticipato un modello che oggi pare ovvio, e che viene adottato in ogni istituzione che voglia essere al passo con i tempi.

Lo stesso dicasi per l’Università: diecine di riunioni di un ristretto gruppo di docenti, il “Comitato Ordinatore”, hanno preceduto l’elaborazione dell’innovativo programma della Facoltà di Medicina, recependo la pressante richiesta del Presidente di fare non “una nuova università” ma una “Università nuova”. Nessuna ipotesi innovativa è stata trascurata, i curricula più avanzati delle più importanti università americane e europee, da Harvard a Maastricht sono stati attentamente analizzati, discussi, recepiti e anche, talora, superati. Dai verbali delle riunioni del Comitato Ordinatore, cui non raramente Don Verzè partecipava, possono essere estratte alcune delle sue esortazioni che danno concretezza al clima che vi si respirava: “Dovete quindi voi di questo gruppo scelto stendere i criteri sui quali dovrà basarsi la istituenda Facoltà Medica, criteri rigorosi e invalicabili da parte di desideri di restaurazione arretrata ed egoisticamente interessata… la Facoltà di medicina dovrà essere nuova e innovante per tutto l’insegnamento medico di questo paese, tanto da tutti agognato ma da nessuno intrapreso con il coraggio dovuto… Non mi preoccupa l’inesperienza dei giovani…mi preoccupa piuttosto la zavorra delle mentalità, dei costumi radicati negli esperti che vogliono il nuovo a patto di trainarsi dietro il venerabile ma rancido marciume del vecchio. Discutete, proponete, accapigliatevi se occorre, ma avanti tutta sulla impostazione della Facoltà Medica San Raffaele”.

L’elenco delle personalità di altissimo livello che vi lavorano o che vi hanno lavorato, di docenti, ricercatori e scienziati di fama internazionale sarebbe troppo lungo e rischierebbe comunque di escludere moltissimi giovani ricercatori promettenti o già brillantemente affermati. Qualche nome può però essere ricordato, da Guido Pozza a Claudio Rugarli, primo Direttore scientifico e primo Preside della Facoltà di Medicina rispettivamente, a Claudio Bordignon, Jacopo Meldolesi, Andrea Ballabio, Giuseppe Pelicci, per non parlare dei nomi prestigiosi delle altre Facoltà, da Massimo Cacciari a Giovanni Reale, Roberta De Monticelli, Edoardo Boncinelli, Massimo Piattelli Palamarini, anche se non tutti svolgono ancora la loro attività al San Raffaele. L’intera istituzione, alla fine degli anni novanta e agli inizi degli anni duemila ha vissuto uno straordinario periodo di fervore creativo sul piano culturale e scientifico, nella massima libertà e indipendenza. Non tutti sanno che i seminari interni e gli annuali retreat della ricerca scientifica che vedono centinaia di giovani e brillanti ricercatori esporre, discutere e confrontare i risultati delle ricerche dei rispettivi laboratori, si tengono, da sempre, rigorosamente in lingua inglese.

Di nuovo un quadro troppo idilliaco? No, perché se posso testimoniare che quello fu lo spirito con cui lavorammo ai nuovi progetti, posso anche testimoniare che parallelamente ciascuno di noi svolgeva quotidianamente il proprio lavoro, nelle corsie, nelle aule dell’università, nei laboratori di ricerca e di diagnosi, consapevole della propria responsabilità per le compatibilità economiche di gestione e di bilancio. E ciò vale sia per la responsabilità dei clinici nel raggiungimento degli obbiettivi di budget dei Dipartimenti e delle Unità Operative che per l’impegno dei ricercatori all’autofinanziamento delle divisioni di ricerca e dei propri progetti.

Perché allora il disastro? Una interpretazione, questa sì viziata forse da soggettività e da mancanza di conoscenza di molti elementi relativi alle dinamiche interne al gruppo di governo, (non quello clinico-scientifico ma quello proprietario), è che a un certo punto la “simbiosi” fra i due gruppi si è allentata e poi rotta. Ai due periodi “d’oro”, quello degli esordi, dal 1971 agli anni ottanta, e quello del consolidamento del modello innovativo della fine degli anni novanta e primi anni duemila, è subentrato un periodo “grigio” nel quale vi è stato un progressivo scollamento fra le scelte e i comportamenti della “proprietà” e la partecipazione dei medici, dei ricercatori e dei docenti alle decisioni.

Non è questo il luogo per descrivere e analizzare un altro elemento di originalità, per non dire di straordinarietà del San Raffaele: quello della presenza al suo interno di un insolito gruppo di persone totalmente dedicate all’opera, il gruppo dei Sigilli. Questo gruppo ha vissuto e vive la totalità della propria esistenza all’interno della istituzione, 24 ore su 24. Non esiste, certamente non in Italia, alcuna istituzione “laica” come il San Raffaele, che possa contare su un tale patrimonio di “risorse umane” totalmente dedicato. Ciò ha rappresentato un indubbio valore aggiunto, ma ha rappresentato e rappresenta anche una variabile complessa e insolita nello svolgimento di una corretta dialettica fra soggetti istituzionali.

Per non parlare della complessità delle interferenze del comportamento spesso “profetico” di Don Verzè, e del suo desiderio e dei suoi tentativi di emulazione-competizione con un potente e articolato movimento come quello di Comunione e Liberazione. Negli ultimi dieci anni, una volta realizzato il grande progetto dell’Università, e consolidata l’attività clinica e scientifica, si è allentata la tensione morale, l’impegno culturale creativo che ispirava il progetto. Forse, anche per il cambiamento generale di atmosfera nel paese, la chiarezza degli obiettivi che portavano a immaginare il San Raffaele equivalente alle più grandi e prestigiose istituzioni anglosassoni o nord americane è andata progressivamente appannandosi con il prevalere delle logiche “italiane” su quelle “antiitaliane” per usare sempre la metafora di Vitale.

Ora, nonostante il lineare svolgimento della procedura giudiziaria saggiamente gestita dal tribunale di Milano, molte incognite restano aperte. Incognite di scenario di una gestione della realtà sanitaria lombarda, in cui le interferenze della politica e di forti interessi di gruppi economici non consente l’esplicitarsi di tutte le possibili energie in un chiaro disegno di programmazione e di indirizzo basato sull’interesse generale. E anche incognite più specifiche, legate alle intenzioni del gruppo sanitario che si è aggiudicata, con la migliore offerta, la proprietà del San Raffaele, dopo che i potenziali concorrenti, IOR- Malacalza e Humanitas, si sono, abbastanza inaspettatamente, dileguati.

Il gruppo Rotelli rappresenta un altro sorprendente risultato di intraprendenza imprenditoriale nella sanità privata lombarda. In un arco temporale equivalente a quello della nascita e della crescita del San Raffaele, il gruppo Rotelli è diventato il più potente e consistente gruppo nella sanità privata lombarda. Con caratteristiche tuttavia differenti rispetto a quelle del San Raffaele: la ricerca scientifica non è stata un elemento caratterizzante e trainante del gruppo. Il traino è stato rappresentato da acquisizioni progressive di strutture sanitarie gestite in funzione della loro redditività economica. Il San Raffaele non ha tifato per la soluzione Rotelli, piuttosto per la soluzione Humanitas, ritenuta più simile e affine quanto ad obbiettivi di qualità, di eccellenza, di integrazione e interazione con la ricerca scientifica e con la formazione e l’insegnamento.

I gruppi privati in Lombardia forniscono una parte rilevante dell’assistenza, e la competizione pubblico-privato rappresenta un valore. Purché le regole siano trasparenti per tutti, e purché i meccanismi di controllo siano rigorosi, e rigorosamente applicati. E purché i doverosi interventi di indirizzo e di programmazione siano guidati da visioni lungimiranti, nell’interesse generale.

Ma non è sempre così e la conduzione della vicenda San Raffaele ne è forse un esempio, al punto da aver fatto apparire ingenuo e “fuori dal mondo” chi auspicava almeno un intervento di moral suasion della Regione che favorisse aggregazioni omogenee. Quale ad esempio la messa in rete dei laboratori e delle capacità di ricerca di tre grandi e qualificate strutture private quali il San Raffaele, l’Humanitas e l’IEO, e la integrazione delle diversità e specificità delle rispettive aree cliniche. Si sarebbe potuto creare uno dei più qualificati gruppi di ricerca e di clinica avanzata, in grado di competere non solo sul piano nazionale, ma su quello europeo e mondiale. A ciò si aggiunga la possibilità di ulteriore potenziamento e valorizzazione della peraltro già prestigiosa Università Vita-Salute, integrandola con strutture cliniche di alta qualità.

Il destino dell’Università è un’altra delle incognite che rendono incerto il futuro di tutta l’istituzione. Sarebbe un drammatico errore non considerare vitale l’apporto che un programma di formazione medica avanzato e all’avanguardia può contribuire a dare. La stipula di una convenzione intelligente e aperta fra i due enti è la prospettiva su cui lavorare. Se poi il fantomatico “cavaliere bianco”, che nella forma di una charity internazionale dovrebbe portare in dote un miliardo di dollari da investire nello sviluppo dell’università si dovesse materializzare, tanto meglio.

L’ottimismo implicito nel titolo, relativamente al futuro del San Raffaele, si basa anche sulla speranza che medici, docenti e ricercatori, il vero valore del San Raffaele, riescano a ritrovare la consapevolezza della loro importanza, al di là di temporanei sbandamenti dettati da opportunismi o da interessi personali, e riescano a essere il vero interlocutore di qualunque nuovo padrone. Non si può non essere d’accordo con Marco Vitale che a conclusione del suo articolo si augura che “i bilanci vengano rimessi in ordine puntando sulle eccellenze e non sui contafagioli”.

Aggiungo, senza voler eccedere in erudizione, la citazione di Orazio a proposito della conquista della Grecia da parte dei romani: Graecia capta ferum victorem cepit… et artes intulit agresti latio (Orazio, Epist. II, 1, 156). “La Grecia conquistata conquistò il feroce vincitore … e le arti portò nel Lazio agreste”.

C’è da augurarsi, mutatis mutandis e riconoscendo ai contemporanei conquistatori una ovvia, differente identità rispetto a quella belluina e agreste dei romani, che una cross fertilization possa avvenire fra la qualità del San Raffaele e la quantità/efficienza del gruppo Rotelli o di chiunque altro dietro ad esso sia, o sarà, “l’acquirente finale”.

 

Giuseppe Scotti

 

 



Condividi

Iscriviti alla newsletter!

Per ricevere in anteprima sulla tua e-mail gli articoli di ArcipelagoMilano





Confermo di aver letto la Privacy Policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali




Ultimi commenti