6 marzo 2012

DI NOTTE TUTTI I GATTI SONO ARANCIONI?


Condivido l’anagrafe con Marossi e altri allegri ultracinquantenni. Ho quindi pieno titolo per ragionare sul colore arancione e i suoi supposti effetti rivitalizzanti e mi chiedo fin d’ora, perché lo si capirà più avanti, se la notte tutti i gatti sono bigi, o meglio arancioni.

Il quadro politico e le derive autoreferenziali del sistema partitico sono disegnati da Marossi con humor sferzante quanto cinico, ma più si compone il quadro e meno convince, quasi fosse costruito più a épater le bourgeois che a dare conto delle cose. Il tema centrale della nostra vita politica sarebbe la lotta spasmodica ingaggiata dalla classe politica per la sua sopravvivenza, tanto a destra che a sinistra: “almeno metà dei parlamentari stante statuti, regolamenti interni etc. è ineleggibile o incompatibile, l’altra metà non gode più di una solida base di appoggio tra i propri elettori/partiti”, insomma un “politico” del tutto delegittimato. Questa rappresentazione corrisponde all’effettivo stato delle cose? A cose che ci parlano di un ceto “partitico” in gravissima difficoltà, ma che conserva un effettivo consenso presso ampie fasce di elettorato?

Nessuno vive con le fette di salame sugli occhi e sono ben visibili alcune evidenti degenerazioni anche a sinistra. Ma che il profilo autocratico della ex destra italiana (dalla Minetti alla trota Renzo) possa essere letto solo come il coté più impresentabile di un sistema politico tutto sommato omogeneo nel suo distacco irrimediabile dalla società civile, questa non pare una visione fedele alla realtà, non utile alla politica, perché non dà conto dell’essenziale differenza tra un ceto politico nato e cresciuto sulla spinta populistica di una destra sempre fantasiosa nell’aggiornare la sua secolare natura eversiva e un centro sinistra che, con tutti i suoi limiti, ha tenuto in piedi un tessuto di idee e di pratiche coerenti con la Costituzione.

Ora che Berlusconi è quasi un “nonno in coma” e che il corpo malato di Bossi è la metafora della sua crisi politica, è facile certificarne il progressivo oblio, ma la differenza che abbiamo marcato in questi vent’anni va riconosciuta anche a merito attuale delle organizzazioni partitiche del centrosinistra, e non obliata in una indifferenziata e grigia visione notturna, dove tutti i gatti (i partiti) sono bigi.

Allo stesso modo, più in là ci si interroga sul dibattito in corso circa identità e prospettive della sinistra. Di nuovo, la risposta è tanto icastica quanto ipersemplificatoria: non un effettivo contraddittorio politico, ma tout court la “sopravvivenza di una classe dirigente … ritenuta inadeguata, plasmatasi su un modello partito quello del secondo dopoguerra fondato su tessere, sezioni, legge proporzionale e organizzazione interna piramidale (per semplificare “leninista”)”. Beh, descrivere i partiti di massa del dopoguerra italiano come leninisti è un bell’azzardo, ma tanto più lo è l’equiparazione necessaria tra modello organizzativo tradizionale e autoreferenzialità del ceto politico dirigente, semmai tratto costitutivo dei nuovi partiti ad personam, a partire dall’archetipo berlusconiano. Ora che questo ceto, proprio in quanto ceto, proceda con proprie dinamiche per tutelare propri interessi ha aspetti di verità anche a sinistra, ma ridurre la questione dell’identità della sinistra a epifenomeno mistificatorio di quegli interessi di ceto, e accomunarli ad analoghi di destra, appare davvero più che una semplificazione, uno sperdimento dell’analisi.

E così via semplificando e accomunando, dove vi è invece complessità e contraddizione, si procede fino alla contrapposizione tra il vecchio modello partito “tradizionale” e il nuovo modello “partito del sindaco”: da un lato un soggetto politico legittimato dal voto popolare e dall’altra una consorteria legittimata solo (?) dagli stessi suoi “consorti”. È reale, esiste, questa contrapposizione in questi termini, o di nuovo la semplificazione di comodo fa velo alla comprensione di una complessità che va compresa, analizzando e distinguendo (che fatica!!)? Come considerare i voti raccolti dal PD a Milano, come negare che quei voti sono, comunque li si guardi, anche legittimazione popolare per il gruppo dirigente e i militanti che li hanno raccolti tanto quanto quelli a favore di Pisapia? Certo Pisapia è stato votato e certo amministra Milano, ma è credibile affermare che raccolta del consenso e gestione degli interessi siano avvenuti e possano avvenire integralmente fuori, per non dire contro, dal contesto della rappresentanza politica partitica, in quanto ormai “vuoto a perdere”?

Quali alternative effettive all’istituzione politica fondata sulla rappresentanza partitica si possono oggi effettivamente praticare a Milano? Si possono credibilmente associare al nome di “partecipazione” i Comitati Pisapia, che sono stati attivi organi di battaglia elettorale e che oggi vivono una profonda crisi di ruolo? A quasi un anno dalla vittoria di maggio, quali istituti e modalità di partecipazione e deliberazione ha tradotto in prassi democratica il concetto di “partito del sindaco”? Un “partito” che vive tuttora di un afflato popolare fiduciario, ed è quindi interamente poggiato sulle spalle della qualità personale del sindaco e del suo staff, ma come non vedere che questa “retorica dell’uomo solo al comando” regge a sinistra solo se si affianca, come si è effettivamente affiancato, a un essenziale lavoro di connessione e articolazione partitica “tradizionale” e che questo tema è affidato al PD, dei cui limiti e contraddizioni gravi si deve dire nel momento stesso in cui lo si riconosce?

Questo nodo non si salta facendo spallucce, accomunando e ipersemplificando differenze che motivano visione e scelte differenti dei protagonisti della nostra vita politica cittadina. PierVito Antoniazzi risponderà da sé, se vorrà, ma credo che il suo sostegno a Stefano Boeri non derivi da chissà quale diabolico progetto entrista, più che inesistente, stupido, ma dalla visione complessa, sofferta, che assegna al PD, con tutti i suoi problemi e mancanze e limiti gravi, un ruolo centrale nella rappresentanza e nella partecipazione politica. Un PD da riformare radicalmente, ma pur sempre un partito che, come opera collettiva, non è strutturato sul profilo di una persona. Questa visione può essere condivisa o meno nella sua lungimiranza, e dovrà essere certificata dai fatti, ma neppure può essere di nuovo ipersemplificata, accomunandola a quella del movimento “arancione”, altrettanto legittima ma opposta, che non ritiene che il PD possa essere l’architrave su cui poggiare l’innovazione della sinistra, e che comincia, chissà come mai, a porsi a sua volta la questione dell’organizzazione politica del consenso e del governo in forme maggiormente strutturate di quanto oggi proponga il modello “partito del sindaco”.

Il cinismo appare il tratto snob di intelligenze sofisticate, ma in realtà è un limite morale alla comprensione: quando se ne fa uso eccessivo, quando la lucidità di giudizio non si accompagna alla passione, si genera un tale distacco dalla realtà da rendercela come uniforme, grigia, indifferenziata, come se, dietro le apparenze vive e policrome delle speranze e degli interessi, vi fosse solo la sorda e feroce lotta notturna per il potere condotta da élites tecniche, come se inforcassimo occhiali che ci restituiscono una sola cromia: grigia o se volete arancione.

Dia retta allora l’amico Walter, un pochino meno di cinismo, di gusto del bon mot a tutti i costi o di gusto della macchina politica come macchina, e vedrà, o meglio scoprirà, che non è vero che di notte tutti i gatti sono arancioni, anzi ce ne sono di tutti i colori, e il bello sta proprio nello scoprirli.

 

Giuseppe Ucciero



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