6 marzo 2012

UNA FATWA SU DE ALBERTIS


Sono tra coloro che non hanno firmato l’appello a Pisapia ma la polemica a proposito dell’elezione del nuovo presidente della Triennale di Milano non accenna a esaurirsi e si presta ad alcune considerazioni sul ruolo delle istituzioni culturali e dei rapporti che intrattengono con gli organi di governo locale e con le diverse componenti sociali.

Non intendo intervenire ponendomi tra i suoi detrattori o i difensori d’ufficio. Mi interessa trattare la questione in termini generali, cogliendo l’occasione offerta dalla polemica ma a prescindere dal caso specifico per cercare di capire quale sia la particolarità di questa nostra tanto decantata (in passato) “capitale morale”, che è stata in epoca moderna la città ove il rapporto tra imprenditori e società, nelle sue varie componenti, ha agito quale importante fattore di sviluppo. Esempi significativi di questo fenomeno di integrazione sono stati i distretti produttivi del mobile e del design e ancora più recentemente della moda, che hanno fatto di Milano una delle capitali mondiali dei rispettivi settori.

Ma anche il settore delle costruzioni è stato determinante non solo per la controversa crescita urbana che ha favorito, ma anche per l’immagine culturale che ha saputo restituire a Milano su scala internazionale. Anche se Ernesto Nathan Rogers, provocando, sentenziava che “il committente è colui senza il quale non si può fare architettura e con il quale nemmeno”, proprio qui da noi molti industriali, da Pirelli a Mondadori, da Olivetti a Brion hanno dato agli architetti l’opportunità di realizzare alcune delle architetture universalmente riconosciute per qualità architettonica come il “Pirellone” di Gio Ponti, il grande complesso di Segrate di Oscar Niemeyer, la sede Olivetti di Marcello Nizzoli, il Portello Nord di Gino Valle, Guido Canali e Cino Zucchi. Lo stesso Palazzo della Triennale, fu realizzato con il lascito di cinque milioni di lire dell’industriale tessile Antonio Bernocchi.

Non sono proprio d’accordo con Marco Vitale quando afferma che la nomina del nuovo presidente della Triennale “suona come uno schiaffo perché in una città ordinata e civile i costruttori fanno i costruttori, i medici fanno i medici, i muratori fanno i muratori, i politici fanno i politici, gli immobiliaristi fanno gli immobiliaristi, gli sportivi fanno gli sportivi e gli imprenditori culturali fanno gli imprenditori culturali.”  Proprio lui, ne rappresenta la più evidente smentita: infatti, sebbene di professione sia un economista d’impresa, egli è prima di tutto una figura pubblica di pensatore cattolico impegnato che, come amministratore, editorialista e scrittore si è interessato non solo di economia, ma anche di musica, di sport e di costume.

Va anche osservato che nella storia della Triennale i presidenti puri intellettuali sono stati in netta minoranza; tra di loro si annoverano infatti politici, imprenditori e manager, cineasti e sociologi, per non menzionare il primo di essi Luigi Mangiagalli che, ostetrico di professione, fu anche sindaco di Milano e tra i fondatori dell’Università Statale. Alcuni autorevoli personaggi della cultura e delle professioni hanno tuttavia ritenuto di doversi esprimere sulla nomina del nuovo presidente denunciando un conflitto di interessi che lo riguarderebbe in quanto a capo dell’associazione delle imprese edili.

I suoi interessi imprenditoriali sarebbero inconciliabili con le finalità di un’istituzione culturale e hanno sollecitato il sindaco Pisapia a intervenire, in base alle prerogative che lo statuto della Fondazione gli assegnerebbe, per ”affidare la Triennale a una personalità di cultura e non di affari”. Hanno infatti ipotizzato che poiché il Sindaco a termini di statuto ha la facoltà di approvare la nomina, possa ipso facto esautorare il Consiglio di amministrazione imponendo un proprio candidato. Per quanto la nomina del presidente della Triennale sia sempre stata accompagnata da aspre polemiche, non si era mai giunti alla pronuncia di una fatwa con l’esplicita richiesta, rivolta al Sindaco, di darvi esecuzione.

Ma la situazione appare sicuramente molto più complessa in termini di diritto e molto più cruciale in termini politici. A tal punto che Pisapia non ha esitato a rinunciare a esercitare tali improprie prerogative, evitando così di provocare un conflitto di competenza che avrebbe avuto gravi conseguenze non solo per i rapporti tra l’amministrazione comunale e la Triennale, il cui Consiglio non avrebbe avuto altra possibilità che dimettersi, ma anche rispetto a quelle componenti sociali della produzione, del commercio e degli affari che si sarebbero sentite sminuite e delegittimate.

Visto che abbiamo avuto modo di sperimentare quali siano le nefaste conseguenze della delegittimazione degli avversari politici, credo valga la pena di impegnarsi a combatterli e confrontarsi sul piano delle idee e delle iniziative, anziché esercitare censure. Milano, che da pochi mesi ha inaugurato una nuova stagione politica, è oggi alla ricerca di una sua identità culturale in grado di rinnovare, aggiornandolo, il prestigio internazionale che aveva saputo esprimere fino agli anni Sessanta.

Un prestigio a cui avevano contribuito – malgrado una dialettica sempre molto vivace – tutte le componenti sociali, nei confronti delle quali una classe di intellettuali innovatori, interagendo con le organizzazioni politiche della seconda metà del secolo scorso, avevano favorito l’affermarsi di comportamenti collettivi di grande valore culturale. Pensare che sia oggi possibile avviare un processo di rinnovamento di Milano e del paese escludendo alcune componenti sociali appare una scelta più che ingenua, irresponsabile. E fa bene Pisapia, che si propone giustamente di essere il sindaco di tutti i milanesi (anche di quelli che non l’hanno votato), a bollare come vecchia politica certe tentazioni di esercitare la delega degli elettori in termini di potere invece che di responsabilità e di servizio.

Anche se condivido la replica di Guido Martinotti alla arrogante presa di posizione di Giulio Ballio, sono certo che avrebbe potuto essere ancora più efficace se fosse stata espressa da una posizione super partes. Sono questi i motivi per cui, per quanto sollecitato, ho deciso di non aderire all’appello indirizzato al sindaco Pisapia.

 

Emilio Battisti

 

 



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