21 febbraio 2012

GENOVA, O DELL’AUTOSUFFICIENZA DELLA SINISTRA


Le primarie di Genova sono state variamente commentate. Mi permetto allora di proporre anch’io qualche spunto.

1) Il focus del dibattito si avvolge attorno alla sconfitta del PD, cosa inevitabile, così come inevitabili i commenti che la imputano alla competizione tra i suoi candidati e alle regole delle primarie, come ad altri fattori locali (il minor afflusso…). Cose vere e giuste, ma così facendo si perde la percezione di un fenomeno di fondo: quasi la metà del popolo della sinistra ha votato per il candidato SEL. Anche sommando i voti delle candidate PD, si arriva a una risicata maggioranza democratica del tutto discordante dal peso elettorale dei due partiti in lizza. Lo stesso fenomeno, a ben guardare, si è verificato anche nelle primarie milanesi, dove l’aritmetica (ma non politica) somma dei voti di Onida avrebbe certo consegnato a Boeri la candidatura a Sindaco, ma con un Pisapia ben oltre il 40% dei voti. Il problema allora non è chi vince e chi perde, ma l’evidente “strabismo” elettorale del popolo di sinistra, che, almeno così sembra, quando deve votare alle politiche sceglie il PD massicciamente, mentre quando vota alle amministrative allarga decisamente lo spettro delle opzioni.

Di cosa è spia questo comportamento? C’è un problema di selezione delle candidature PD? O c’è dell’altro, quasi un volersi regalare un sogno su scala locale, tenendo invece gli occhi ben aperti su quella nazionale? Ma è poi giusta questa percezione, o non si corre il rischio di accostare nella valutazione due espressioni di voto lontane nel tempo (la politica è del 2008), rischiando così di non capirci proprio nulla. I sondaggi certo danno conto di una crescita a sinistra del PD, ma il divario numerico resta enorme e non giustifica le percentuali delle primarie. E quindi, di cosa parliamo? C’è un problema di selezione del ceto amministrativo o c’è un problema di “schizofrenia elettorale” a occhi aperti?

2) Dunque, quasi la metà del popolo democratico vota alle primarie candidati di sinistra – sinistra. Qual è la ragione di fondo? Possiamo parlare di un riflesso identitario per cui il nostro bravo elettore PD ha la testa verso il centro ma il cuore a sinistra? E vogliamo magari negare lo stesso istituto delle primarie, che ha il torto di rappresentare ciò che non si vorrebbe vedere? E soprattutto è molto difficile negare che il caro vecchio mito dell’unità della sinistra, quella rappresentazione di popolo coeso attorno alle sacre bandiere della giustizia sociale e della democrazia è ancora largamente fondativo dell’identità e quindi della distinzione, ragion per cui i candidati che guardano al centro non sono in grado di coglierla appieno nelle urne elettorali del loro popolo. Qui tocchiamo un nodo della nostra repubblica che chiede di essere finalmente sciolto, quello stato di minorità psicopolitica per cui il militante del PCI e prima ancora quello frontista si battevano sì, ma sapevano, loro prima degli altri, che non potevano andare più in là, che la radicalità della loro domanda politica unita ai vincoli geopolitici della guerra fredda non avrebbe mai consentito alla sinistra di porsi di fronte allo Stato e al potere come negli altri Paesi occidentali dove la sinistra non era comunista.

3) Oggi, a oltre vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, quella formazione culturale ancora vincola quasi coercitivamente il nostro pensiero o possiamo pensare che sia finalmente venuto il tempo dell’autosufficienza della sinistra nel proporsi come l’aggregato di forze che si candida al governo del Paese senza più doversi mimetizzare, indossando via via le mentite spoglie del moderato laico o cattolico che sia? Il tema può essere anche questo, o meglio il messaggio che ci manda il popolo democratico può anche essere questo, ma come leggerlo, come decodificarlo, come farlo diventare la base di una proposta politica che sappia coniugare, con il fattore identitario, la capacità effettiva di governo dei problemi? Non basta infatti condividere alcuni assunti storici di sinistra perché si trovino le coordinate prima e le forze poi per essere effettiva forza di governo dell’oggi (Veltroni aveva provato una semplificazione con lo “spirito maggioritario”).

4) Questo filo di ragionamento deve ora articolarsi ben dentro lo scenario del postberlusconismo, che scompone le tessere del mosaico e fatalmente riporterà le formazioni del terzo polo e la stessa IDV verso il centro di gravità tradizionale, con questo aggiornando il confine destra – sinistra. Uno scenario dove la seconda repubblica trascolora nella terza, ma non tanto e non solo negli istituti politici (tutti ancora da scoprire) ma nella costituency politico morale, nella disarticolazione inarrestabile di uno schieramento di centro destra populista “eversivo” che pare archiviato e che apre nuovi scenari per la sua ristrutturazione modernizzante e costituzionale. Se pure Monti, del cui arrivo al Governo si deve ringraziare Dio e la lungimiranza del PD, opera la sua “rivoluzione liberale”, tagliando con decisione alessandrina incrostazioni, patti sociali ingialliti e rendite, se pure, e di nuovo lo si ringrazia, riporta all’onore dell’oggi valore etici dimenticati, neppure si può dimenticare che la sua politica è una grande politica di destra europea. Che un Paese stremato lo abbia preferito al vecchio debosciato e al suo amico populista più che una scelta è stata una necessità, ma alla sinistra questo può bastare? Non nell’oggi, ma nel domani ormai vicino? Mentre Monti avanza e miete successi non sentiamo un brivido sulla schiena nell’intravedere il formarsi di un nuova destra finalmente “europea” che, scrollatosi di dosso il ventennio recente, ristruttura il paese secondo le coordinate del mercato a tout à l’heure?

5) Se questo scenario non sta bene, bisogna immaginarne un altro, ma che sia effettivo, coerente con l’altezza delle sfide dell’oggi. Monti è un grand commis della finanza e governa la ristrutturazione del Paese secondo il paradigma della Banca Centrale Europea, che è oggi il vero centro motore della politica europea, ma paradossalmente, perché fa la politica senza poterla fare e senza esserne legittimata. La sua legittimazione giuridica sta nel Trattato di Maastricht, quella di fatto nella potenza germanica, quella culturale nel pensiero unico del mercato come valore assoluto invece che come strumento. Quale forza può sfidare questo mostruoso concentrato di regolazione – potenza – rappresentazione? Vendola, Pisapia, Doria? Scusate, viene da ridere e ben dice D’Alfonso che queste risorse non bastano, ma a ben vedere neppure Bersani o Hollande, stretti nei loro confini nazionali. E ancor meglio dice Antoniazzi quando coglie che solo il governo di una grande area geopolitica (l’Europa?) è in grado di ridare nuova dignità e agibilità effettiva a una politica democratica, ridefinendo uno spazio statuale capace di porsi testa a testa con le grandi concentrazioni finanziarie, affrontando su scala adeguata e con piena legittimazione popolare, le grandi sfide dell’economia, dell’ecologia, dell’etica, della democrazia.

6) Oggi gli stati nazionali sono sempre più gusci svuotati della forza originaria, spazi attraversati dai grandi flussi finanziari, commerciali, umani, tecnologici, non più governabili. Lo Stato nazionale come lo abbiamo conosciuto e fatto vivere come contenitore del conflitto socio politico e come “regolatore” dell’economia è sempre più il pallido ricordo di se stesso, e proprio qui sta il pericolo mortale per una sinistra che ancora lo identifica come il luogo esclusivo della propria politica: la stanza dei bottoni di Pietro Nenni è vuota.

7) Siamo partiti dalle elezioni di Genova e siamo arrivati molto lontano, ma in realtà moto più vicini di quanto appaia. La domanda politica di sinistra, la sua voglia di autosufficienza, potrà essere soddisfatta a condizione che si sappia reimmaginare uno spazio e una visione della politica effettivamente alternativa al mix implosivo di solitudini nazionali, ricette ideologiche e retorica della competitività. Lo spazio politico europeo appare l’unico contesto in cui si può anche solo immaginare un paradigma diverso da quello della modernizzazione tecnocratica che pone al suo centro finanza e mercato deregolato.

Mentre a Genova si discuteva delle percentuali e del freddo, Bruxelles (o Francoforte) venne presa?

 

Giuseppe Ucciero

 

 



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