21 febbraio 2012

Scrivono vari 22.02.2011


Scrive Giacomo Properzj a proposito di “navigli” – I milanesi hanno votato a favore, in occasione delle ultime elezioni amministrative, di alcuni referendum tra cui quello per il ripristino dei Navigli nella loro funzione originaria. Forse, oltre all’entusiasmo, sarebbe stata necessaria qualche maggiore riflessione perché oggi l’Amministrazione si trova in difficoltà a realizzare quanto previsto dal referendum: infatti il Naviglio Pavese è stato degradato da canale di navigazione a canale irriguo con relativo abbassamento del livello delle acque e periodi di secca. Se cessasse la sua funzione irrigua si creerebbe un grave danno per tutto l’abbiatense. Il canale leonardesco è troppo stretto per la manovra di un moderno bateau mouche come si è potuto verificare qualche anno fa con un battello al tempo regalato da vari sponsor che non riuscì a uscire dalla Darsena. Il recupero della Darsena è doveroso ma occorre ricordare che il traffico mercantile di quel porto non esiste più (ancora negli anni Cinquanta era il quinto porto d’Italia per tonnellaggio, fatto tutto di sabbia).

Se poi, proseguendo in quello che non è un progetto ma un sogno, si pensa di ricostruire la rete urbana del Naviglio, occorre riflettere che il sessanta percento degli immobili prospicienti alla circonvallazione sono stati costruiti dopo la copertura del canale, che ci sono ben quattro attraversamenti della metropolitana e una infinità di tubature fognarie o che contengono cavi di ogni sorta. Bisogna ancora sapere che la pendenza del canale è variata e l’acqua, come già avveniva al principio del secolo XX, tende a ristagnare e si accumulano nelle griglie ogni sorta di detriti e spazzature che forniscono alimento a topi di grandi dimensioni.

Le belle stampe del Settecento che riproducono le fresche acque del Naviglio, in cui talvolta si poteva veder guazzare anche le anitre selvatiche, riflettono una città che non raggiungeva i centomila abitanti e, forse, erano già allora un’immagine vagamente edulcorata della realtà. L’enorme sforzo finanziario che sarebbe richiesto al Comune andrebbe dunque a ricostruire qualcosa di falso e forse non mai esistito, più simile a Las Vegas (dove è ricostruita quasi perfettamente Venezia) che non alla città di Stendhal. Resta da valutare per il futuro come regolare referendum che si innestano sui legittimi sogni dei cittadini ma senza poter essere veramente realizzati e che dunque servono solo a raccogliere voti di preferenza o gli indirizzi di chi li firma.

 

Scrive Gregorio Praderio a Giuseppe Campos Venuti – Mi fa piacere che Campos Venuti trovi che la nuova riformulazione del PGT superi i problemi del Piano Moratti ereditato dalla Giunta Pisapia. Immagino che con spirito pragmatico e riformista abbia potuto verificare direttamente sugli elaborati i miglioramenti sul tema della sostenibilità economica del Piano o sulle dotazioni di servizi per abitante, o altro ancora. Peccato però che sia uno dei pochi che per ora  l’abbia potuto fare, visto che finora del PGT riformulato abbiamo solo i commenti e non i documenti operativi (quelli che poi alla fine “producono” la città). Sarebbe interessante ad esempio scoprire in che modo è stata risolta la sanatoria proposta dal Piano Moratti per i loft abusivi o se c’è ancora la norma che permette di trasformare magicamente la slp dei servizi religiosi in residenze e uffici (o qualcuna delle tante altre stranezze ben nascoste nel Piano).

 

Scrive Maria Grazia Campari a Luca Beltrami Gadola – La soluzione del portavoce di giunta ipotizzata da L.B.G. nell’ultimo numero della rivista on line è teoricamente ineccepibile, ma, a me pare, in contrasto con l’afflato partecipativo (a termine?) che ha segnato la campagna elettorale, quindi la scelta dell’attuale sindaco. Penso che sarebbe meglio seguire l’altra ipotesi: tenere riunioni aperte ai cittadini interessati e che intendono partecipare alle questioni trattate, magari offrendo un apporto (gratuito) di competenze nel merito. La speranza del cambiamento suscitata dalla candidatura di Pisapia si radicava anche nell’aspettativa di un rapporto biunivoco fra amministratori e amministrati, una costante relazione informativa e una presa in carico di suggerimenti e critiche di merito. La partecipazione presa sul serio. Questa l’aspettativa di molti, in particolare di quelli che hanno partecipato ai vari tavoli su tematiche ritenute cruciali e hanno offerto tempo e conoscenze. Che ne è stato? Quale l’utilizzo da parte di questa amministrazione? A me pare calato un silenzio mortificante. Mi sbaglio?

 

Scrive Vito Antonio Ayroldi ad Andrea Bonessa – Capisco che non possiate, con le vostre esigue forze verificare tutto, ma i dati statistici vanno maneggiati con molta cura e attenzione e non per mettere due dita negli occhi a una generazione, quella dei giovani, già sfigata di suo, in modo tanto superficiale quanto sterile. L’architetto Andrea Bonessa parla di “un paese dove 87 italiani su 100 posseggono una casa (e 47 la seconda)” L’ISTAT parla più precisamente di oltre sette famiglie su 10. Tra famiglie e Italiani c’è una differenza numerica che dovrebbe cogliere anche un architetto.

Alludere poi ai giovani, quelli più fortunati, come dei debosciati: “E loro si sono seduti nel loro nuovo soggiorno e hanno acceso la televisione: un pezzo del loro futuro era già assicurato” significa impiegare facili schematismi, falsi peraltro, di nessuna utilità analitica. Non che il ragionamento di fondo sia sbagliato il connubio perverso tra Finanza immobiliare e sviluppo urbano in Italia è, da sempre, il nodo gordiano da sciogliere. Basti leggere Malacittà di Mario De Gaspari tanto per citare soltano uno dei numerosi contributi sull’argomento. Semplicemente andrebbe fatto con maggiore cura e sobrietà come nello stile di questa sua Rivista che ha il pregio di essere l’unico foro di riflessione intelligente sulla città che Milano possiede. (http://247.libero.it/focus/20329597/0/casa-istat-7-famiglie-su-10-sono-proprietarie)

 

Replica Andrea Bonessa – Gentile signor Ayroldi, lei ha perfettamente ragione. Anche se i dati in mio possesso sono leggermente più alti, si tratta di famiglie e non di Italiani. Anche se architetto, non posso che condividere con lei, che il dato numerico è differente. Avrei dovuto dire che l’87 per cento degli Italiani abita in una casa di proprietà diretta o indiretta. Su una cosa però mi spiace che il mio articolo sia stato male interpretato. Non intendevo mettere due dita negli occhi ai giovani, ma, anzi, volevo evitare alle future generazioni di fare gli errori di chi li ha preceduti, indicare e ai loro padri una strada diversa per aiutarli a crescere e costruirsi il futuro. Purtroppo, anche se cruda e forse un po’ troppo a effetto, sappiamo tutti che la mia frase su “soggiorno e televisione” ha il suo fondamento. A questo aggiungerei anche il mito del “posto fisso” con cui permettersi di pagare il mutuo per trenta anni di attività, subendo il laccio di un altro nodo gordiano, che legava il posto di lavoro (e le collegate umiliazioni e vessazioni) all’esigenza di onorare un debito.

Quando parlo di giovani non penso a una categoria da proteggere ma alla vera e unica linfa di crescita di una società. Creatività, entusiasmo, capacità, resistenza, idealità sono patrimonio intellettuale, salvo rare eccezioni, degli under 30. Ma devono essere supportate dalla spinta al miglioramento e dalla soddisfazione di veder raggiunti i propri obbiettivi. Incentivare non ha niente a che vedere con assistere o far bruciare le tappe. Pensare che i ragazzi non abbiano un futuro, o accreditare che non si sposino, perché non hanno la possibilità di comprarsi una casa è un falso finalmente evidente. I ragazzi non hanno futuro perché non hanno un lavoro. E il lavoro non si crea investendo, quasi esclusivamente, nel mattone. Il lavoro si cerca e si trova studiando, spostandosi, pensandolo, investendoci, coltivandolo giorno dopo giorno. E su questo noi padri dobbiamo essere vicini ai nostri figli.

La casa di proprietà, e ancora peggio, la sua aspettativa, sono spesso un palla al piede da cui un giovane difficilmente riesce a liberarsi. Incentivare le politiche dell’affitto, siano private o pubbliche, è la strada per dare a un bene di consumo, quale la casa, il giusto valore di strumento, non di fine, della nostra attività. Tutti abbiamo bisogno ogni giorno del pane, ma non per questo ci compriamo la panetteria. Diverso è promuovere delle politiche perché il prezzo del pane sia accessibile a tutte le categorie sociali. E su questo mi sembra molto interessante quanto scritto, nello stesso numero di ArcipelagoMilano, da Gianni Zenoni. Concludendo, giusta la sua osservazione ma forse sarebbe il caso che parlassimo della luna e non del dito. Luna che nel mio articolo ho cercato di rendere più visibile possibile, e su cui mi sembra che lei sia, sostanzialmente, d’accordo. O sbaglio?

 

 



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