14 febbraio 2012

teatro


PALI

di Spiro Scimone

regia Francesco Sframeli assistente alla regia Roberto Bonaventura

scene e costumi Lino Fiorito disegno luci Beatrice Ficalbi

con Francesco Sframeli, Spiro Scimone, Salvatore Arena, Gianluca Cesaleù

 

Su due dei tre pali in scena, che ricordano immediatamente il Golgota, stanno due personaggi che, per tutta la durata dello spettacolo, non si muovono da lì. Altri due arrivano, uno suona un tamburo e l’altro una tromba. I quattro dialogano fra loro. Quello col tamburo lava le camicie di tutti e si diletta a parlare del suo ano. Quello con la tromba cerca di raccontare una barzelletta su un uovo e una gallina ma non riesce, impersonando la gallina, a produrre l’uovo. Uno dei due sul palo invoca ripetutamente Dio ponendogli domande futili o profonde o profondamente futili che fanno ridere il pubblico ripetutamente (nonostante il tormentone si ripeta più di trenta volte, o forse proprio per quello). Alla fine dei cinquanta minuti circa di spettacolo i due uomini arrivati a piedi, invitati dagli altri due, decidono di salire sul palo centrale, e lì restano fino alla chiusura del sipario.

In mezzo a tutto questo: Beckett. Beckett nei dialoghi serrati fatti di lunghi botta-e-risposta. Beckett nei rimandi biblici. Beckett nella stessa struttura interna dei personaggi, così simile ad Aspettando Godot: due che aspettano e mentre aspettano parlano, e due che arrivano (uno chinato e uno dietro che lo segue, come Pozzo e Lucky).

Rispetto ai climi beckettiani c’è più colore, sia inteso in senso cromatico che in senso metaforico. C’è la Sicilia, terra d’origine del duo Scimone/Sframeli (ormai famoso in tutta Europa), che vela la cifra beckettiana, come quei filtri fotografici che fanno diventare in bianco-e-nero o a tinta seppia le fotografie a colori. Ma sempre di filtro si tratta e il problema è che, nonostante l’indubbia bravura dell’autore, della regia e degli attori (fra i quali ci sono anche autore e regista), non è Beckett. E quel che manca, o meglio che c’è ma non è al livello dei testi beckettiani, è la complessità della problematica umana che genera l’azione e le parole.

L’assurdo, termine con cui viene spesso indicato il teatro di Beckett, era in realtà un concetto che lo stesso autore aveva già superato: “La negazione non è possibile. Come l’affermazione. È assurdo dire che è assurdo. È ancora esprimere un giudizio di valore. Non si può protestare, e non si può esprimere un’opinione”, dice Beckett a Charles Juliet. Spiro Scimone, invece, sembra fermarsi alla concezione di “assurdo” come denuncia: denuncia generica di una condizione di vuoto, di apocalisse continua, di solitudine, di un nulla che però è ormai scontato denunciare, dato che ha avuto nella post-modernità più cantori di qualsiasi altra musa. L’assurdità, in certi punti, sembra vaga, non motivata da una necessità cogente, finalizzata più ai giochi scenici (di grande impatto) o ai giochi di parole (anch’essi riuscitissimi).

Ma forse il vero problema non è dell’opera ma di chi, vista la fama e i lavori precedenti del duo, si aspettava di più. Perché in realtà lo spettacolo è una vera chicca: il testo è scritto con una finissima intelligenza lessicale e dialogica in costante servizio del ritmo e la regia, nell’evidenziare e poi nascondere le simmetrie, permette agli attori (tutti molto bravi) di muoversi in un contesto modulare e di conservare allo stesso tempo la libertà di andare sopra le righe. Non è Beckett, ma è pur sempre il Premio Ubu 2009 come “miglior testo italiano” messo in scena da una delle compagnie più rappresentative del teatro italiano contemporaneo.

 

Teatro Franco Parenti dal 2 al 12 febbraio

 

In scena

 

Al Teatro Elfo Puccini fino al 19 febbraio Viaggio al termine della notte, da Celine con Elio Germano.

Al Piccolo Teatro Studio fino al 19 febbraio Settimo di Serena Sinigaglia.

Al Teatro Crt fino al 19 febbraio Sonno, regia di Vincenzo Schino.

Al Teatro Out/Off fino al 4 marzo Il guardiano di Harold Pinter, regia di Lorenzo Loris.

Al Teatro I dal 15 febbraio al 12 marzo Lotta di negro e cani di Bernard-Marie Koltès, regia di Renzo Martinelli.

 

questa rubrica è a cura di Emanuele Aldrovandi

rubriche@arcipelagomilano.org

 



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