31 gennaio 2012

MILANO, LA CASA: 60 ANNI DI ERRORI


Certo rimediare a sessanta anni di errori nella politica della casa non è una robetta che si fa in quattro e quattrotto ma per cominciare a cambiar strada basta un attimo, un po’ di amarcord e l’abbandono della demagogia. Gli errori storici fondamentali sono stati due: la creazione di categorie di privilegiati e la svendita del patrimonio di edilizia residenziale pubblica di ogni genere, da quella dei cosiddetti allora Istituti Autonomi Case Popolari a quelli degli enti previdenziali e ai fondi pensione e per finire i beni demaniali statali e comunali.

A questi errori se n’è aggiunto un terzo più di recente, quando l’edilizia popolare ha cominciato a chiamarsi “housing sociale”: l’illusione che per provvedere a queste necessità si potesse far carico ai privati di una “quota” del nuovo edificato. Ma andiamo per ordine cominciando dalla creazione di categorie di privilegiati, con una premessa sulla quale non torneremo: vi è una categoria di nostri concittadini che non hanno mai avuto e mai avranno le risorse economiche per provvedersi di un tetto né di un affitto lontanamente paragonabile al mercato né tantomeno in acquisto.

Di costoro non dobbiamo mai dimenticarci perché la casa è il diritto di accesso a un bene primario ormai universalmente riconosciuto come tale: esso rientra tra i diritti inviolabili dell’uomo, riconosciuti e garantiti dall’articolo 2 della Costituzione, e trova un riconoscimento espresso nell’art. 25 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e nell’art. 11 del Patto internazionale dei diritti economici, sociali e culturali. Purtroppo mai nella storia del nostro Paese vi sono state risorse sufficienti a far fronte a questo impegno di civiltà ma storicamente le risorse destinate alla casa sono andate via via diminuendo e, abbandonando i più diseredati, ci si è avviati verso il meccanismo delle agevolazioni: si è in pratica offerto a chi qualche risorsa pure l’aveva, un aiuto dello Stato all’acquisto legato alle condizioni di reddito al momento dell’acquisto stesso.

Mentre in altri Paesi si privilegiava la locazione agevolata, col vantaggio che all’aumentare del reddito il supporto pubblico ai singoli diminuiva a favore di nuove fasce di utenti meno fortunati, la nostra politica della casa in proprietà ha fatto sì che chi a suo tempo ha acquistato con aiuti pubblici (mutui agevolati e aree edificabili a prezzi convenzionali o in edilizia cooperativa) anche quando, fortunatamente, il suo reddito è aumentato ha continuato a godere di vantaggi che lo seguono per tutta la vita, vantaggio particolarmente gradito in un Paese come il nostro dove le imposte patrimoniali vere ce le sogniamo e dove, a parità di reddito, chi la casa l’ha e non deve né comprarla né affittarla, dispone di un reddito spendibile molto maggiore. Non è un danno tangibile per la società ma una ingiustizia fiscale come molte altre.

Praticamente la stessa cosa è accaduta nel momento nel quale il Paese è stato percorso dalle prime ondate di dismissioni del patrimonio residenziale pubblico. Da quel momento situazioni come quelle della casa del ministro della Pubblica amministrazione, Filippo Patroni Griffi, venuta alla luce qualche giorno fa, ve ne sono decine di migliaia e posso, senza tema di smentita, dire che questo patrimonio immobiliare fu svenduto. Le ragioni, o meglio le scuse, erano che era un bene che non rendeva (non si sapeva farlo rendere) e che spesso gli enti proprietari non riuscivano nemmeno a farsi pagare le spese di gestione: era la resa incondizionata all’inerzia – non del tutto casuale visto che si sommavano pigrizia e favoritismi – delle amministrazioni e il desiderio di favorire clientele elettorali in tutti i ceti e in tutte le classi sociali, con buona pace anche dei sindacati. Dunque anche qui l’ennesima occasione per creare classi privilegiate che hanno potuto godere di un incremento patrimoniale straordinario e di un costo per l’abitazione che non incideva sul reddito come per altri meno “fortunati”, a parità di aliquota imponibile. Sono state, tanto per andare nell’amarcord, anche gli anni delle grandi operazioni immobiliari milanesi di operatori che costruivano con la “certezza” di vendere interi quartieri a enti previdenziali a trattativa privata, magari con un tantino di lubrificante, poi svenduti.

Veniamo ora alla grande “illusione” dell’housing sociale ottenuto con il sistema delle convenzioni di lottizzazione che prevedevano la cessione gratuita di parte dell’edificato a un ente pubblico. Facciamola corta. Spesso era la ciliegina sulla torta per ottenere o maggiori cubature, magari per legge, o la infernale prassi dell’urbanistica contrattata. Inconvenienti? Scarsa o nulla produzione di quel tipo di edilizia sociale, la generale pessima qualità di quel costruito, visto come un onere improprio da parte dell’operatore, lo sgattaiolamento tra le pieghe delle convenzioni per negare impegni assunti. Per ultimo, ma non meno grave, quando l’edilizia privata si ferma non è che contemporaneamente scompaia la domanda di edilizia sociale e dunque se non si fa l’una non si fa nemmeno quel poco che si prevedeva dell’altra.

Quale è la situazione ora del patrimonio di edilizia pubblica? La domanda cresce perché diminuiscono i redditi, gli enti proprietari cercano di vendere per riuscire a pagare almeno le manutenzioni più urgenti e reggere le morosità incolpevoli. Siamo di fronte a un fenomeno di auto cannibalismo immobiliare, un modo nuovo per dichiarare fallimento per auto consunzione: pochi anni ancora e di edilizia pubblica abitabile non ve ne sarà più. È questo il destino che ci aspetta? Le tensioni sociali le vediamo solo altrove? Di ricominciare a investire in edilizia “popolare” proprio non ce la sentiamo? Non è una priorità? Stiamo a vedere!

 

Luca Beltrami Gadola

 



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