31 gennaio 2012

Musica


LES CONTES D’HOFFMANN

Dal nostro ….. inviato speciale alla Scala!

Appena entrato alla Scala per ascoltare i Contes d’Hoffman, il 25 gennaio, il pubblico è stato preso da un vero e proprio sgomento: il teatro è sorprendentemente mezzo vuoto, sia nei palchi che in platea! Cosa succede? Eppure non si dà un’opera sperimentale, contemporanea o fuori repertorio, ma una piacevolissima e notissima “Opera phantastique” in un’edizione che ha tenuto il cartellone all’Opera di Parigi con quasi un centinaio di recite dal 2000 a oggi … Non solo: un’opera legatissima al Don Giovanni di cui tutta Milano – e anche questo giornale – ha parlato e talvolta sparlato appena poco più di un mese fa, soprattutto intorno all’interpretazione di quel Carsen che firma anche la regia di questo spettacolo, che quindi avremmo pensato fosse atteso alla controprova; per non dire del cast musicale, certo privo di esponenti dello star system internazionale ma sicuramente all’altezza del Teatro, dal Direttore allo stuolo imponente di prime parti (tre soprano, una mezzosoprano, due tenori e un basso) tutti con voci e presenza scenica più che soddisfacenti, come i lunghi e ripetuti applausi del (rarefatto) pubblico hanno testimoniato. E dunque, perché così poco interesse?

Forse la risposta va cercata in una situazione che supera la specifica occasione, toccando quel “punto debole” del teatro che le tante amministrazioni succedutesi negli anni ancora non sembra siano riuscite a risolvere: il rapporto con il pubblico pagante, il meccanismo di acquisto dei biglietti e di selezione degli happy few che riescono ad assistere ad almeno una rappresentazione. Non si tratta di politica dei prezzi se è vero, come sappiamo, che l’effettivo ricavato dalla vendita dei biglietti di una stagione è di molto superiore a quello che il Teatro incassa, visto il fiorire di rivendite e di bagarinaggio – tradizionale ed elettronico – che contraddistingue il cartellone. E se il sistema adottato (inizio delle prevendite a data e ora fissa per la grandissima parte dei posti disponibili, che di norma vanno esauriti nel giro di poche ore quando non di pochi minuti…) fosse tale da prestarsi non solo a tante “manipolazioni” ma addirittura a un effetto respingente del tipo “non ci provo nemmeno, tanto so che non lo trovo“? Esattamente questo era stato il nostro caso, perché “non ci avremmo provato” se amici non ci avessero segnalato che a due giorni dalla recita c’erano ancora molti posti liberi…

Se non fosse questa la causa del paradosso cui abbiamo assistito – un’opera di successo che alla Scala ha successo ma poco pubblico – allora non resterebbe che una sconsolante conclusione: quella che ormai anche la Scala sia vittima della propria eccellenza, e che quando non mette in scena l’Evento – la Grande Opera di repertorio, il Grande Direttore, l’Etoile del bel canto, ecc. – cessa di essere quel luogo ambito e affollato che merita di essere.

Dunque, dicevamo del rapporto dei Contes con Mozart e il Don Giovanni, un rapporto a più livelli: dall’autore (Offenbach noto come il “Mozart degli Champs Elysees“), al protagonista dell’Opera, lo scrittore romantico E.T.A. Hoffman che per devozione a Mozart aveva addirittura cambiato il suo terzo nome da Wilhelm in Amadeus, alle citazioni musicali che si susseguono (dall’entrata di Nicklausse – la Musa en travesti – che canticchia “Notte e giorno mal dormir…” sull’aria iniziale di Leporello, al personaggio auto-da-fè di Stella, l’ultimo incontro femminile di Hoffmann che nell’epilogo entra in scena abbracciando il gran mazzo di fiori donatogli per il suo successo in un ruolo femminile dell’opera mozartiana), ma soprattutto nel personaggio stesso di Hoffmann, un Don Giovanni della Belle Epoque, anch’egli in sempiterna e frustrata ricerca di una donna da conquistare.

Ma le analogie finiscono qui, perché Hoffmann, a differenza di Don Giovanni, cerca l’amore, cui è disposto a sacrificare persino la sua Arte: in pieno mood tardo romantico, ai fulminei innamoramenti che nei Racconti si susseguono, lo sventurato paga un prezzo sempre più alto, la disillusione di trovarsi fra le braccia non la donna amata ma un “Authomathe” meccanico (Olympia), la perdita della vocalità (Antonia) e – nell’ultima avventura con Giulietta – addirittura l’evanescenza della sua immagine. I tre infelici amori di Hoffmann (alle cui disavventure assistiamo con un pathos più vicino all’Opera Comique che al dramma) sono – e qui ancora ci ricordano le eroine del Don Giovanni – le tre metamorfosi di uno stesso ideale irraggiungibile (“Trois ames dans une seule ame“) cui solo il rifugiarsi nell’arte – al quale alla fine lo convince la Musa – potrà dare consolazione.

Dunque un dramma denso di intenzioni moralistiche ma vissuto e rappresentato con la leggerezza di un’Operetta, come non poteva che essere per un Autore che di operette, prima di quest’ultima sua tormentata e incompiuta creazione, ne aveva scritte più di cento. Non sembri un paragone blasfemo, sicuramente non vuol diminuirne il valore, ma i Contes offenbachiani, mutatis mutandis, ricordano la stessa nostalgia della Belle Epoque che ha ispirato il Midnight in Paris di Woody Allen.

Sulla regia di Carsen e sulle scene e i costumi di Michel Levine davvero nulla da dire, una “macchina” perfetta e visibilmente rodata, che ripropone un topos già visto ma sempre efficace come il “teatro che si rispecchia nel teatro” (in un Atto il palcoscenico, nell’altro addirittura la platea, con le poltrone che ondeggiano al ritmo della celebre “Barcarolle“). Un caleidoscopio di soluzioni sceniche che asseconda il “melodismo torrenziale” (Mario Bortolotto) con cui si susseguono piacevolissime arie, pezzi d’assieme, cori e danze al ritmo di valzer, can can e galop, magistralmente interpretate dalle belle voci e dalla capacità recitativa dei protagonisti: fra tutti l’Olympia della bella e giovanissima soprano Rachel Gilmore e la grande presenza scenica e vocale di Hoffman Ramon Vargas. Insomma, uno spettacolo da non perdere, ci sono ancora tre recite e, a quanto pare, ci sono ancora posti liberi…

Andrea Silipo

Musica per una settimana

*mercoledì 1, venerdì 3 e domenica 5 alla Scala le ultime tre recite dei Contes d’Hoffmann di cui si racconta in questa nota, diretti da Marko Letonja per la regia di Robert Carsen

*giovedì 2, venerdì 3 e domenica 5, all’Auditorium, l’orchestra e il coro della Verdi nel meraviglioso Oratorio Elias, opera 70, di Mendelssohn-Bartholdy diretto da Helmuth Rilling (direttrice del coro (Erina Gambarini) con Simone Easthope (soprano) Kisnara Pessatti (contralto), Dominik Wortig (tenore) e Markus Eiche (basso)

*lunedì 6 al Conservatorio (Serate Musicali) Miklos Perenyi e Andras Shiff (violoncello e pianoforte) eseguono le 12 Variazioni di Beethoven in fa maggiore op. 66 su “Ein Mädchen oder Weibchen” dal Flauto Magico; la Sonata di Schubert in la bemolle “Arpeggione” D821; i Tre Piccoli Pezzi op. 11 di Webern (del1914); il Rondò in la minore K. 511, il Minuetto in re maggiore K. 355 (576b) e la Piccola Giga in sol maggiore K. 574 di Mozart; le Sette Variazioni di Beethoven in mi bemolle maggiore su “Bei Männern, welche Liebe fühlen” dal Flauto Magico

*lunedì 6, alla Scala. l’orchestra della Filarmonica diretta da Daniel Harding nel primo Concerto per pianoforte e orchestra in re minore opera 15 di Johannes Brahms (pianista Lars Vogt) e Le Sacre du printemps di Igor Strawinskij

*martedì 7, al Conservatorio (Società del Quartetto) Leonidas Kavakos ed Enrico Pace in quattro Sonate per violino e pianoforte di Beethoven: la n. 2 in la maggiore (opera 12 n.2), la n. 3 in mi bemolle maggiore (opera 12 n.3), la n. 6 in la maggiore (opera 30 n.1) e la n. 7 in do minore (opera 30 n.2)

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org



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