24 gennaio 2012

cinema



LA TALPA

di Tomas Alfredson [Gran Bretagna, Francia, Germania, 2011, 127′]

con Gary Oldman, Colin Firth, Tom Hardy, Benedict Cumberbatch

 

Il cigolio di una porta anticipa la comparsa di un uomo dai capelli scompigliati e dallo sguardo preoccupato. “Non si fidi di nessuno Jim, soprattutto nelle alte sfere”. Questo invito alla diffidenza di Controllo (John Hurt), nome in codice del capo dei servizi segreti britannici, indirizzato al suo uomo diretto a Budapest è anche l’incipit più raffinato e misterioso che Tomas Alfredson potesse mettere in scena per introdurci a queste due ore di immersione nel torbido ed enigmatico mondo dei servizi segreti.

Nel 1973, in piena guerra fredda, una talpa si è inserita a tal punto nell’organizzazione britannica da averne ottenuto il controllo e il totale monitoraggio delle attività. Il fallimento di Controllo nell’operazione di smascheramento e le relative dimissioni di George Smiley (Gary Oldman) rappresentano le condizioni necessarie affinché quest’ultimo possa impersonare la figura del liberatore. In un sistema reso totalmente marcio da un cancro in continua espansione l’unica cura può venire dall’esterno.

Questo pacato agente segreto è esattamente l’antitesi del noto collega dei servizi britannici James Bond. Niente macchine di lusso, niente peripezie, niente seducenti conquiste ma un antieroe che usa la sua perspicacia per raggiungere il risultato, avendo nella moglie, scostante e infedele, il suo unico tallone d’Achille. Il personaggio, frutto della penna di John Le Carré, è davvero il più vero e umano esemplare in grado di confutare gli innumerevoli stereotipi del genere.

La scacchiera, su cui il regista si sofferma più volte, è la metafora delle modalità operative di Smiley. Nessun ricorso alla violenza, nessuna azione istintiva o azzardata, solo una serie di mosse che ricordano una partita a scacchi. Egli sa dall’inizio che una pedina muove a favore dell’avversario ma l’intento di Alfredson è proprio quello di mostrarci un uomo solo che grazie alle sue straordinarie doti di intelligenza e acutezza riesce a neutralizzare l’avversario fino allo scacco matto finale.

Marco Santarpia

In sala a Milano: Colosseo, The Space Cinema Odeon, Plinius Multisala, Orfeo, UCI Cinemas Bicocca.

 

 

TRE COLORI: FILM BIANCO

di Krzysztof Kieslowski [Francia/Polonia/Svizzera, 1994, 89′]

con: Zbigniew Zamachowski, Julie Delpy, Janusz Gajos

 

Karol (Zbigniew Zamachowski) sta per entrare in un tribunale di Parigi, la moglie Dominique (Julie Delpy) ha chiesto il divorzio. Mentre osserva il cielo, casualmente, una colomba gli sporca la giacca. Per caso, appunto. Inizia così Tre colori: Film bianco [Trois couleurs: Blanc, Francia/Polonia/Svizzera, 1994, 89′], secondo film della trilogia di Krzysztof Kieslowski (gli altri sono Tre colori: Film blu e Tre colori: Film rosso).

Karol, polacco, è abbandonato a Parigi con la sua grossa valigia e l’amore per Dominique ancora trepidante; non un amico, tanto meno un soldo per tornare nella sua cara Polonia. La vita di Karol è scandita da accadimenti imprevisti, ed è di nuovo il fato a fargli incontrare Mikolaj (Janusz Gajos): connazionale attraverso il quale riesce a ritornare in patria da clandestino. Per Kieslowski sembra sia il “caso” a governare l’esistenza: l’uomo impotente davanti al destino. Però, a guardar bene, Karol non rimane inetto: sul palco della vita, dove i suoi movimenti sono decisi da quel master che tira i fili del burattino, scopre la bellezza della possibilità. «Tutto è possibile», dice Mikolaj a Karol. Anche crearsi una nuova strada che prescinda dal sentimento amoroso per Dominique. Ma l’amore per la donna è un ingrediente immancabile la cui scintilla si tiene viva per mezzo del ricordo: il candido vestito da sposa di Dominique è segno indelebile e ricorrente nella sua memoria.

Allo stesso modo, l’amore è il secondo ingrediente – oltre al caso – che insaporisce Tre colori: Film bianco. Lo stesso amore che l’aveva umiliato, deriso, quel sentimento palpitante che, spezzandosi, gli aveva distrutto il cuore. Kieslowski, assieme con Krzystof Piesiewicz, racconta il “restauro” del rapporto tra Karol e Dominique: rotto e, lentamente, ricostruito; proprio come la statua frantumata che Karol porta sempre con sé e, con devozione, ripara tenendo vivo il ricordo di Dominique. Le cicatrici causate dal loro Amore non hanno sete di vendetta, non serve nemmeno il perdono, i due vivono rimbalzando tra gli ostacoli del caso. Di nuovo, tra questi ostacoli, emerge la “possibilità”: si rincontrano, fanno l’amore e si separano nuovamente. Questa volta, per scelta di Karol.

Ma è in quella separazione che si accorgono che la distanza non è così incolmabile: il silenzio collega i loro occhi lontani, nella luce fioca di una prigione le mani di Dominique si muovono riempiendo il silenzio con una richiesta d’amore per Karol. Nella delicatezza di quei gesti ritroviamo l’eleganza con cui Kieslowski racconta l’uomo nella costruzione del proprio destino.

Paolo Schipani

In sala: dal 14 al 29 gennaio rassegna su Krzysztof Kieslowski; consulta il programma sul sito dello Spazio Oberdan

 

 

 

questa rubrica è a cura di Paolo Schipani e Marco Santarpia

rubriche@rcipelagomilano.org

 



Condividi

Iscriviti alla newsletter!

Per ricevere in anteprima sulla tua e-mail gli articoli di ArcipelagoMilano





Confermo di aver letto la Privacy Policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali




Ultimi commenti