25 febbraio 2009

QUARANT’ANNI BUTTATI AL VENTO


Una premessa: io ho fiducia nel futuro, credo nella ricerca scientifica e tecnologica, sono profondamente laico e sono convinto che comunque il passato sarà in genere più brutto, triste e scomodo del presente e del futuro.

Ammesso che questo basti a convincere chi legge, ovvero senza tentar di compiere alcuna operazione di revanchismo, ho dei precisi ricordi del passato, non troppo lontano, in cui, anche con molto meno, si riusciva a vivere una vita serena e dignitosa. Ho vissuto in campagna per molti anni, mentre  grandi trasformazioni del territorio erano già in atto: i primi segni dell’inquinamento industriale sotto gli occhi di tutti, il lago davanti a casa non più balneabile, molte delle specie vegetali e animali ormai rare o già del tutto scomparse.

Anni Sessanta e per la prima volta la mia maestra in classe ci parlò di “ecologia”. Non ricordo né il contesto preciso, né le conclusioni, quello che tuttavia che mi rimase impresso fu che già allora qualcuno, nella provincia profonda dell’impero globale, avesse iniziato a discutere della protezione dell’ambente e della non rinnovabilità delle fonti energetiche, dell’estinzione di fauna e flora. Si parlava già delle grandi foreste amazzoniche in pericolo, della crescita disordinata delle città e del bisogno essenziale per l’uomo di mantenere integre parti del pianeta. Da allora sono passati quarant’anni. Tutto questo ci veniva spiegato non da un fine ecologo americano, ma dalla nostra saggia maestra di terza elementare. Certo queste cose le ha sentite anche l’assessore Croci dalla sua maestra forse non la sindaca Letizia Moratti: le elementari della fine degli anni 50 erano ancora attente all’ortografia, la grammatica e la storia patria, ferma alla guerra del 15-18.

Nel frattempo?

Nel frattempo abbiamo sostituito la merenda fatta di pane burro e zucchero con migliaia di dolci e dolcetti preconfezionati, abbiamo iniziato a bere acqua gassata, da un televisore siamo passati a due, poi tre, e infine quattro, cosi anche l’unico momento di aggregazione familiare, la sera dopo cena, è diventato uno spazio di solitudine. Abbiamo comprato, ammassato, inquinato, aggredito, spadroneggiato, distrutto. Mi colpisce oggi, soprattutto quanto la pubblicità abbia influenzato le nostre scelte, titillato e aumentato i nostri bisogni, molti dei quali assolutamente superflui e indotti a cominciare dai SUV. Ne parliamo in questo numero di Arcipelagomilano. Mentre tutti, nessuno escluso, andava ripetendoci che queste autovetture, oltre a consumare liti e litri di carburante, mai avrebbero fatto i conti con la struttura delle nostre città, e che parcheggi a disposizione nei centri storici, e non solo, andavano diminuendo anziché aumentare, ecco che il marketing martellante è riuscito a convincerci che avevamo un assoluto bisogno non di automobili più piccole, ecologiche e facilmente parcheggiabili, ma assolutamente del contrario, il tutto condito da immagini di mostri di lamiera che, in assoluta libertà scorrazzavano per monti e spiagge disabitate. Un sogno. Magie della pubblicità.

Torniamo al passato: quando un paio di scarpe bastava per un’intera stagione, le cartelle scolastiche erano di uno o due modelli al massimo, le bibite gassate consumate con parsimonia e certo non tutti i giorni ma di nuovo, non si cerca qui di tessere le lodi di un mondo che non c’e’ più. Quello che invece tutti noi dobbiamo capire, di fronte a questa poderosa crisi economica e finanziaria, è che quello che noi oggi consideriamo il nostro normale e irrinunciabile stile di vita è destinato inesorabilmente a mutare. Dal possedere un’unica autovettura per famiglia, a risparmiare sull’acqua, soprattutto quella calda, al comprare, forse, libri usati, sino a utilizzare la bicicletta e i mezzi pubblici per i nostri spostamenti più brevi. Sono anni che gli esperti ci ripetono che una delle strade per uscire da questo circolo consumistico e vizioso è quella dell’acquisto intelligente, del riuso, del risparmio, del riciclo. Tornare, finalmente a vivere dignitosamente, senza comunque sentirsi necessariamente infelici. Così come hanno fatto inizialmente nostri padri e come hanno facilmente fatto i nostri nonni.

Carneade



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