23 dicembre 2011

CITTADINI DEL MONDO A MILANO


Milano sta cambiando passo. In relazione alle politiche rivolte ai migranti lo sta facendo sensibilmente, iniziando a definire un futuro fatto di innovazioni profonde. Tutto ciò non si deve solo al vento nuovo materializzatosi nell’affermazione elettorale del centrosinistra. La politica infatti è stata capace di raccogliere qualcosa che ardeva sotto la cenere. Le novità che l’attuale amministrazione milanese sta realizzando nell’ambito delle politiche sull’immigrazione sono anche il risultato di battaglie che le associazioni di migranti e i singoli individui hanno portato avanti nel recente passato.

In questa cornice, dentro un mutamento che è cresciuto nel tempo della “divisione istituzionalizzata”, parte dell’amministrazione comunale ha iniziato a garantire risposte di accoglienza e di sviluppo, spesso non comunicate e valorizzate come avrebbero meritato, traducendosi così in nicchie di azioni per le quali non è esistito un supporto politico, né l’inserimento di queste in un processo più ampio e ambizioso.

La reazione matura e consapevole della maggioranza dei cittadini milanesi che non si è fatta spaventare dalla propaganda vergognosa e xenofoba messa in campo dal centro destra durante le settimane che hanno preceduto il ballottaggio alle ultime elezioni amministrative è stata dunque la prova di un sentimento che si è fatto immediatamente dopo pratica di governo. La città era pronta a un cambiamento, soprattutto su questo fronte.

Si è passati dalla Milano della paura e delle ordinanze coprifuoco alla Milano del tavolo delle cosiddette seconde generazioni, meglio definite come portatori sani di cittadinanza, la Milano del Forum delle Culture, dell’adesione alla campagna “l’Italia sono Anche Io”, la Milano del Centro per richiedenti asilo di via Barzaghi, la Milano della dequesturizzazione dei processi di regolarizzazione, di un futuro, speriamo prossimo, Immigration Center capace di accogliere tutti – dagli studenti universitari alle persone più vulnerabili.

Oggi, dopo questo radicale cambiamento, già avvenuto, forse non consumato, ma certamente avverato, Milano si trova a un bivio. Può continuare con un processo di innovazione incrementale, forse meno silenzioso, oppure può rifare un salto. Può non solo recuperare il ritardo accumulato rispetto ad altre città italiane e soprattutto europee, ma può porsi fin da subito come laboratorio di sperimentazione di politiche e di pratiche che fungano da esempio e da traino al nostro Paese e al resto dell’Europa.

Il tessuto sociale milanese, i processi di globalizzazione, in certi casi l’Unione Europea, potrebbero quindi richiedere di essere ancora più veloci. A Milano, siamo già alle terze generazioni e in Europa si discute da tempo del superamento della discriminazione positiva, del fallimento del multiculturalismo e del bisogno di una società interculturale, del ruolo fondamentale delle diaspore nelle politiche interne ed estere dei Paesi di accoglienza, degli effetti dei nuovi flussi migratori, come quelli causati dai cambiamenti climatici, dell’abbandono dei progetti di integrazione a favore della sperimentazione di politiche che si basino sull’interazione e sul riconoscimento in un singolo individuo di identità plurime.

Solo per fare un esempio, oggi a Milano un medico etiope o una giovane dipendente comunale somala sono già un messaggio. Sono di per sé un simbolo. Ma i simboli ovviamente non bastano, anzi se non contestualizzati, rischiano di accreditare politiche assistenzialiste, o peggio, di dare adito a discriminazioni maggiori. Per questo, i provvedimenti di discriminazione positiva – che devono avere una durata temporale definita – devono sempre essere considerati come un mezzo per raggiungere un fine. Un fine che si traduce nella parità di opportunità e nell’uguaglianza dei diritti.

Inoltre, l’immigrazione non è solo immigrazione emergenziale. Si emigra soprattutto perché si cercano opportunità migliori, laddove l’immigrazione è anche composta di studenti, dottorandi, professori, medici, architetti, imprenditori e intellettuali. Essere capace di attirare e accogliere professionalità diverse da diverse parti del mondo è decisivo per lo sviluppo economico e culturale di qualsiasi città intelligente.

Ed è proprio ragionando in termini di competenze e di interessi, e non di provenienza, che si possono mettere le basi per quel laboratorio di sperimentazione di cui parlavo prima. “Sapere è avere” diceva un giovane attore senegalese pochi giorni fa al Forum delle Culture della Città Mondo. È necessario quindi ragionare sulle professionalità dei migranti, sulle modalità di coinvolgimento dei singoli, su politiche che siano attente alle piccole medie imprese avviate e gestite da immigrati. Chiunque abbia fatto un’esperienza all’estero, più o meno lunga, sa quanto poco quell’esperienza è passata per l’adesione a un’associazione di carattere nazionale. Gli studi del CeSPI (www.cespi.it) dimostrano infatti che una persona di origine straniera può gravitare attorno ad associazioni di migranti, ma spesso il suo contributo alla società di accoglienza va ben al di là delle attività di tali associazioni.

Milano può dunque diventare un modello di quello che Livia Turco ha chiamato il nuovo patto sulla cittadinanza. Dopo vent’anni di genocidio culturale, la nostra identità si è frammentata e si è fatta fragile. Vent’anni di comunicazione appiattita su format televisivi e stereotipi ci ha reso spesso incapaci di confrontarci con gli altri, di guardare in faccia le diversità. A 150 anni dall’Unità d’Italia dobbiamo tutti ricostruire la nostra identità partendo da un nuovo lessico, da una riscoperta del nostro passato letto insieme a quello che è il nostro presente e il nostro futuro. È stata Marian Ismail, una donna di origine somala, a dirmi di andare a Grinzane Cavour dove tra i busti dei padri fondatori non ci sono Anita Garibaldi, Rosa Luxembourg, non ci sono le donne che hanno fatto l’Italia.

Non si tratta di incentivare l’integrazione a un’identità che facciamo fatica a definire. Si tratta di ricostruire la nostra identità. Per questo la partecipazione dei cittadini di origine straniera alle politiche pubbliche di questa città non può essere solo la soddisfazione del bisogno di rappresentanza e deve essere accompagnata da una chiara presa di posizione politica sul bisogno, a livello nazionale, di riformare la legge sulla cittadinanza e di promuovere il diritto di voto, almeno amministrativo, agli immigrati residenti.

Su questo Milano sta già facendo molto. Ed è sicuramente grazie a questa consapevolezza e al cammino intrapreso che potrà riuscire in una nuova innovazione radicale per cui il colore della pelle e la provenienza geografica non saranno più elementi capaci di condizionare le scelte. Nel bene e nel male. Saranno invece fattori di sviluppo, di conoscenza, di arricchimento culturale, di cooperazione, anche, ma decisamente non solo, in vista di EXPO 2015.

 

Caterina Sarfatti



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