23 dicembre 2011

PISAPIA ALLA FINE DEL PRIMO SEMESTRE


Quali scenari prossimi nella politica italiana? Sull’andamento della politica italiana, dopo i cambiamenti, si leggono in prevalenza analisi di crisi del bipolarismo, per come si è sviluppato. E si delineano soluzioni per il dopo Monti, che investono tutti i soggetti – politici, istituzionali, economici, territoriali – che concorrono a diverso titolo a definire nuovi assetti. In minoranza vi è invece chi salva ancora il bipolarismo, con alcune varianti. Prevalgono, allo stato, queste analisi:

* ove si ricreassero condizioni di un ruolo nuovo e sano dei partiti, ipotizzando il perdurare della crisi (Monti ha annunciato due anni di non crescita), prevale l’idea – per l’Italia come per la Germania – di un assetto di medio-lunga transizione affidato a una “grande coalizione”, nell’impossibilità di lasciare soggetti importanti fuori dalla condivisione delle responsabilità;

* ove il protagonismo dei partiti si riproponesse senza novità dopo la cura Monti (considerata più per ristabilire la credibilità italiana in Europa) vi è anche la prospettiva – oggi poco condivisa – di rivedere in piedi il rissoso teatrino abituale di un bipartitismo molto imperfetto con PDL e PD alla ricerca, come prima, di intese sulle regole per far pesare il meno possibile i loro rispettivi scomodi alleati;

* una terza ipotesi è costituita dall’accentuarsi della formazione di intese tra i conservatorismi e per converso tra i riformismi presenti negli schieramenti attuali; variante che riduce la centralità del terzo polo che nella prima ipotesi assume caratteri politici superiori al peso elettorale e nella seconda tende invece a essere schiacciato; e che apre la possibilità – un po’ intellettualistica – di cambiare la natura del bipolarismo lasciandone solo il disegno formale;

* una quarta ipotesi prende in considerazione le precedenti ma non quella della riuscita del “nuovo protagonismo dei partiti”, che oggi sono al fondo della fiducia degli italiani e con poca prevedibile rianimazione anche a ragione di qualche successo della “cura Monti”; così da lasciare nella ricomposizione dei poteri l’importante presenza di lobbies, magistrature amministrative, tecnostrutture e sistemi organizzati di interessi in forma extra-partitica; e dunque ipotizzando esiti diciamo così cinici che convivono con la confusione politica;

* una quinta ipotesi vede il governo Monti gestire la cura scorticante fino alla ricomposizione di alleanze bipolari o tripolari tra i partiti che, nelle urne, potrebbero modificare l’attuale incremento del PD e l’attuale criticità del PDL ribaltando pronostici, cioè logorando il PD e tornando a premiare il PDL.

Ci sono anche altre indicazioni di prospettiva. C’è confusione. Non è facile dire quale sia lo scenario in divenire di un’Italia incerta, connessa a un’Europa altrettanto incerta (che torna a discutere sulle proprie due velocità, non essendo chiaro se mezza Italia non rischi di finire nel girone B), confinante con un Mediterraneo confuso a sua volta collocato in un quadro mediorientale sempre esplosivo. In tale sistema di nebbie una vecchia roccia politica come Helmut Kohl avrebbe prefigurato anche il possibile rischio della guerra.

Chiunque abbia pubbliche responsabilità, anche territoriali, non può chiudere gli occhi sulla destinazione del transatlantico su cui viaggiamo. Tutti cercano di capire quale sia la rotta più probabile e alcuni cercano di adeguare opzioni e comportamenti. In sala macchine ora vi è la squadra che corrisponde ai caratteri dell’emergenza e in sostanza al “partito del Presidente”.

L’ansia – connessa all’immenso bisogno di reputazione internazionale – di accantonamento del berlusconismo, è stata trattata come una sospensione, con sottovalutazione della pochezza dei contenuti di alternativa concreta. Di modelli, di politiche, di contenuti, di classe dirigente. Quindi l’emergenza ora non è solo un territorio tecnico per decisioni finanziarie. E’ anche, per ora, una neutralizzazione dello scontro politico per riconsiderare natura e posizionamento dei soggetti in campo. La destra deve fare i conti con la divaricazione PDL-Lega che può essere tattica rispetto a future elezioni ma potrebbe anche trascendere in forme non recuperabili. Crisi di pari livello è quella della sinistra italiana che ha vinto – per reattività naturale del sistema e dell’opinione pubblica – a Milano, Torino, Napoli, Bologna, Trieste, eccetera, ma con formule una diversa dall’altra, con disegni a corto, con adattamenti ad alleanze e patti favoriti da logiche di sommatoria elettorale più che di confronto strategico di progetti. Da qui la generale riluttanza dei nuovi gruppi dirigenti di spingersi sulla strada dei disegni non diciamo visionari, ma neppure previsionali. Perché forieri di rischi identitari e quindi anche politici.

Quale relazione Milano-Italia? È dentro questa cornice della transizione della politica italiana che si deve tentare di fare qualche sintesi interpretativa sul primo semestre della giunta Pisapia. Espressione di un successo politico consistente e di una alleanza tra partiti e società. Una sintesi che qui non è fatta rispetto allo stretto andamento amministrativo, pur irto di complessità; ma rispetto alla consistenza e alla eventuale significatività del “laboratorio politico Milano”. Ove esso esista davvero al di là dello sbandieramento comunicativo.

A Milano, infatti, la slavina nazionale è cominciata, qui è stata legittimata la virata dell’elettorato dando – in casa di un centro-destra al potere da quasi vent’anni e con il dimezzamento delle preferenze dello stesso Berlusconi – non la forma salottiera del dissenso ma la forma democratica dell’alternativa. È dunque naturale considerare in chiave politica l’evoluzione del contesto. Trattando questo contesto come un soggetto – si vedrà se capace o non capace – di relazionarsi con il quadro dei cambiamenti che si segnalano in Italia, che si preludono in Lombardia, che si prefigurano in Europa.

Abbiamo alcuni segnali. Sullo scenario politico nazionale ha preso posizione lo stesso Pisapia. Intervistato da Lucia Annunziata ai primi di dicembre ha detto che la quinta ipotesi, prima accennata, è la più probabile e va corretta da subito. Se si lascia correre il governo d’emergenza fino a metà 2013, dice Pisapia, si assume il rischio che sulla scia di misure lacrime e sangue appoggiate da un centro-sinistra che alla lunga perderà la faccia sarà di nuovo il centro-destra ad aggregare consensi. Da qui la necessità di mettere termine al governo Monti al massimo a metà 2012, tornando a votare con la garanzia di Napolitano al Quirinale e ipotizzando che il centro-sinistra parta subito con primarie, programma, ampia coalizione, verso quell’obiettivo.

Questa tesi è destinata a dare più responsabilità alla Milano che oggi è meno rappresentata nel governo Monti. Un governo, come si sa, con molti milanesi collocati nello schieramento moderato. Una responsabilità che deve far ritrovare attorno alla giunta Pisapia un movimento d’opinione capace di sostenere progetti da terza repubblica e allo stesso sindaco di assicurare i suoi cittadini che l’attenzione al quadro nazionale non distoglie dai complessi problemi amministrativi della città.

Quel movimento dovrebbe anche misurarsi con l’ipotesi che nel 2012 (elezioni?) il presidente della Regione Lombardia Formigoni scelga la prospettiva di contendere da settentrionale (ciellino) la leadership del centro-destra oggi assunta dal siciliano (democristiano) Alfano. Per ottenere il controllo del partito o, in subordine, per portare una robusta quota di elettorato in una funzione istituzionale – e possibilmente governativa – importante.

Dunque un asse tra l’alleanza arancione milanese e un’ipotesi simile in Regione spingendo questi schieramenti a influenzare un possibile successo nazionale (che porterebbe anche alla conquista del Quirinale). La “sinistra plurale” oltre a un leader credibile (rispetto a quella saldatura) dovrebbe essere pronta a mettere in campo una nuova generazione, una classe dirigente a maturazione per gli anni della ripresa della crescita e quindi per quelle riforme sociali necessarie a riportare il paese nella cultura del welfare e dell’equità.

Ecco, dunque, che Milano si delinea come un soggetto non propriamente antagonista rispetto al governo Monti ma certamente dialettico e di sorveglianza. Sentinella di un paese che non vuole ridurre a poltiglia il sistema dei partiti e non vuole ritrovarsi in assetti in cui alle vecchie lobbies si aggiungano quelle della burocrazia statale romana, che ha finora liquidato le spinte federaliste del nord senza riuscire a ricucire nessuno degli strappi reali tra nord e sud del paese.

In tale quadro, che fare a Milano? Se fosse questo il destino politico della città, resterebbe da vedere se Pisapia (che incassa a metà dicembre il gradimento di 6 cittadini su 10, meglio di Albertini e Moratti) si potrà permettere il lusso di influenzare la politica italiana, mantenendo anche il consenso – per provata buona amministrazione – del suo percorso a Palazzo Marino.

Per dimostrare la capacità e la possibilità di giocare questa partita, a chiusura del primo semestre di attività, Pisapia dovrebbe dare segnali attorno ad alcuni argomenti:

> rendere più evidente il nuovo carattere del pluralismo politico della sua area di consenso (dove allo stato i partiti della sinistra ringhiano, il PD si squaglia, il centro non si evidenzia, i Comitati si ergono a guardie rosse e i gruppi di partecipazione sociale borghese stanno più alla finestra);

> porsi il ragionevole problema della prospettiva regionale, sia per il peso della città capoluogo, sia per l’indispensabilità di una forte sinergia tra città e regione negli anni di continuità della stretta economica e del percorso verso Expo;

> non assumere in prima persona (alla Renzi) il compito di partecipare con protagonismo alla lunga marcia (primarie comprese) ma tracciare significative alleanze;

> consolidare il laboratorio virtuoso di Milano, dando risposte all’articolo di Giangiacomo Schiavi, vicedirettore del Corriere della Sera, del 30 novembre 2011, in cui si sono sollevati dubbi sul registro della “buona amministrazione” milanese non per mancanza di etica pubblica o di dedizione del Sindaco e della Giunta, ma per mancanza di visione, strategicità e progettualità. Aggiungendo, per ora, insufficienti risultati attorno all’obiettivo di Expo 2015, conflittualità interna alla coalizione (caso Boeri) e fragilità comunicativa di una efficace azione di governo.

Questa agenda è complessa, delicata, non risolvibile con una dichiarazione o un’intervista. In qualche modo è il risultato di problemi aperti dentro e fuori il recinto urbano dell’azione di un movimento-non movimento che, formato da un outisder, in condizione di crisi dei partiti tradizionali, riportando uno schieramento al governo dopo 17 anni, non poteva forse fare di più nel primo semestre, in cui molti segnali costruttivi sono stati dati, non da ultimo revocando coraggiosamente il PGT e rigenerando il disegno urbanistico della città. Ma Milano non è il suo recinto urbano. È un disegno metropolitano ancora incompiuto e non metabolizzato dalla popolazione. È una grande città globale. È un brand mondialmente noto ma in difficile trasformazione. È un centro di produzione materiale e immateriale che pesa dentro e fuori l’Italia. Chiunque guidi l’amministrazione si trova a fare scelte sull’agenda più ampia a cui si è fatto cenno. La pausa natalizia aiuterà a capire se il gruppo dirigente troverà tempo e modo per aprire con buona volontà questo dossier, dando a esso anche la missione di influenzare – nell’interesse di tutti – il destino dell’intera Italia.

 

Stefano Rolando



Condividi

Iscriviti alla newsletter!

Per ricevere in anteprima sulla tua e-mail gli articoli di ArcipelagoMilano





Confermo di aver letto la Privacy Policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali




Ultimi commenti