20 dicembre 2011

MILANO, LA VISIONE CHE NON C’È: GLI SCALI FERROVIARI


Nella stagione del ripensamento delle scelte per il futuro della città, è cruciale tornare a parlare della riconversione degli scali ferroviari. La trasformazione delle sette aree dismesse delle FS (a parte l’ambito Cadorna FN), com’è noto, è a oggi regolata dall’Accordo di Programma tra Ferrovie dello Stato, Comune di Milano e Regione Lombardia (2007-2009), secondo una prassi consolidata dell’urbanistica negoziata. L’operazione prevede la vendita delle aree (per un totale di circa 1.100.000 mq) con l’impegno per Ferrovie di “destinare le plusvalenze alla realizzazione delle opere concordate di riqualificazione e potenziamento del sistema ferroviario” (nel Pgt è stato aggiunto un ambiguo “anche mediante il reimpiego delle plusvalenze”), senza ulteriori precisazioni.

Il Pgt, la cui approvazione è stata recentemente revocata con l’intento di riaprire il riesame delle osservazioni, recepisce pienamente quanto indicato nell’Accordo di Programma (sebbene con una modifica della perimetrazione delle aree, con conseguente ricaduta sul calcolo dell’indice e delle plusvalenze), confermando le prescrizioni là contenute e inserendo gli scali nelle aree strategiche classificate come “Ambiti di trasformazione Urbana” (ATU), assieme alle caserme, e alle aree Cascina Merlata, Stephenson, Expo, Ronchetto sul Naviglio, Bovisa, San Siro, Toffetti, San Vittore, Magazzini Raccordati Stazione Centrale, Cadorna FNM.

Quali sono a oggi le indicazioni per il riuso degli scali? Sette schede, ciascuna per ogni scalo, contengono le linee di indirizzo, tanto chiare quanto generiche.

Nel merito di tali indicazioni, preme sottolineare la scarsa considerazione di una strategia complessiva: innanzitutto gli scali non sono trattati in una chiara gerarchia, anche in funzione del differente livello di accessibilità, traducibile in distinte opportunità localizzative (e le differenze registrate dai diversi indici/usi previsti non fanno riferimento né all’accessibilità reale o prevista, né alle necessità/potenzialità dei singoli contesti specifici e tanto meno di sistema). In secondo luogo sembra esservi una rinuncia a un approccio sistemico, che consideri gli scali come elementi di un disegno utile a rimeditare il sistema delle relazioni metropolitane, in quanto capisaldi di sistemi diffusi nel territorio, con precisi caratteri produttivi. Inoltre, la straordinaria accessibilità del trasporto pubblico non viene adeguatamente tenuta in conto rispetto alle potenzialità delle grandi funzioni pubbliche, di rilevanza metropolitana e regionale, insediabili.

In questa prospettiva, il dibattito sulle massime volumetrie accoglibili, pure importante, diventa di secondo piano. Anzi, se si assume l’obiettivo (necessario) di salvaguardare la città consolidata nelle sue misure e di valorizzare l’esteso patrimonio inutilizzato o sotto utilizzato (per il quale si auspica un censimento attendibile), l’ipotesi di densificazione degli ex-scali, in quanto correlata all’accessibilità del trasporto rapido di massa, pare del tutto ragionevole e nella direzione opposta alle ultime modifiche apportate al Piano adottato con gli emendamenti. Non demandabile è invece la scelta delle attività umane e dei modi d’uso insediabili, vera garante rispetto a potenziali e temute derive speculative. Attivare dispositivi nei processi che possano scongiurare il rischio di massicce quantità di residenza, incoraggiando invece il più alto grado possibile di mixitè, funzionale e sociale, appare irrinunciabile.

Le anticipazioni della bozza del “Documento politico di indirizzo per il governo del territorio” della consulta per la revisione del Pgt (ottobre 2011) ci dicono che “si predilige l’opportunità di ricomprendere la questione scali ferroviari all’interno del Pgt, escludendo il ricorso alla procedura di AdP in corso.” Scelta promettente, nell’ottica di una revisione strategica del documento. Tuttavia, poco dopo si legge “oltre a dover decidere dove investire le plusvalenza secondo ordini di priorità (più verde, più housing, più interventi infrastrutturali, più monetizzazione), vi è il grosso nodo delle modalità di attuazione. La sensazione è che non si possa pensare di vincolare le trasformazioni a un intervento unitario, con le conseguenze del caso sulla programmazione della mobilità. […] Altro nodo è la previsione della circle line, che secondo RFI andrebbe in conflitto con l’attuale servizio.”.

Sembra di ravvisare, in questo passaggio, una rinuncia alla regia delle trasformazioni.

Eppure – se la ricerca “Nove parchi per Milano” (1993) ha rappresentato per certi aspetti l’ultimo, seppur discutibile, tentativo di un disegno organico delle trasformazioni della città – i sette scali, insieme ad altri ambiti strategici, quali ad esempio le caserme, offrono forse l’ultima occasione per il capoluogo lombardo di esprimere una visione per il proprio futuro e di imprimere un deciso indirizzo al proprio sviluppo.

Un’ultima, non meno importante, preoccupazione riguarda la qualità dei progetti urbani. Vent’anni di urbanistica negoziata a Milano (PRU e PII) ci hanno mostrato come gli strumenti messi in campo per il controllo della qualità dei progetti (sia del costruito che dello spazio aperto) non siano sufficienti a garantire esiti di qualità urbana accettabile e di vantaggio pubblico. Con rare eccezioni, infatti, il bilancio è assai deludente. Continuare ad affidarsi a dinamiche analoghe – con la pretesa di “orientare il mercato” a scelte virtuose, così come rivendicato dal Pgt (“un piano che non vuole essere un piano”, per dirla con le parole dell’ex-assessore Masseroli), senza introdurre prescrizioni più stringenti – per aree tanto strategiche e preziose pare pertanto inaccettabile. Aree, è bene sottolinearlo qui, storicamente pubbliche, rispetto alle quali l’aspettativa dei cittadini è legittimamente molto alta.

I sette scali rappresentano, per tutte le ragioni sopra illustrate, un’occasione irripetibile per riscrivere i rapporti tra Milano e il territorio, restituendo un orizzonte di senso nitidamente riconoscibile per la trasformazione della città. Riesaminare le osservazioni sarà sufficiente? Se la rivendicazione della centralità di una regia pubblica non viene da questa Giunta, da quale altra Giunta potremo aspettarcela? Riprendendo il fortunato motto del movimento al femminile degli ultimi mesi, “se non ora, quando?”

Laura Montedoro



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