13 dicembre 2011

LAVORARE A MILANO: CHI È DENTRO CHI È FUORI


Roberto ha trentatré anni ed è albanese. Lavora nella cucina di una birreria della periferia di Milano circa dieci ore al giorno. Abita lontano dal posto di lavoro, in un piccolo paese vicino a Novara, e questo lo costringe ad arrivare al ristorante alle dieci del mattino e ad andarsene alle due della mattina successiva. Roberto deve lavorare sia per servire il pranzo che la cena e non facendo in tempo a tornare a casa per riposare è costretto a stare là tutta la giornata. La domenica mattina, dopo la chiusura alle due, va a stendersi su una brandina al piano superiore della birreria, dove ci sono gli spogliatoi, aspettando che si facciano le quattro e mezza. A quest’ora si reca alla stazione Centrale e prende un treno per Padova, dove vivono la sua ex compagna e la sua bambina di due anni. Se è riuscito a mettere qualche soldo da parte, la bimba sarà felice di ricevere un piccolo regalo, altrimenti dovrà aspettare tempi migliori. Poi, passata qualche ora in compagnia della figlia, riprende il treno e la domenica sera, sul tardi, è di nuovo alla stazione Centrale, raggiunge la sua auto e finalmente arriva al suo letto per dormire le poche ore che rimangono prima di tornare in quella seconda casa che è la birreria alla periferia di Milano.

Lavorando cinquantasette ore la settimana, Roberto guadagna più o meno 600 euro in “busta”, dichiarati nel contratto per un determinato numero di ore di lavoro, e altri 600 “fuori busta”, un modo simpatico di dire in nero. In totale sono circa 1200 euro al mese, uno stipendio misero per le ore che lavora e che il lavoro lo tiene impegnato. Chi ha mai lavorato in una cucina di un ristorante molto frequentato sa bene cosa voglia dire. È un lavoro frenetico, stancante, c’è sempre qualcosa da fare e c’è sempre qualcuno che ti chiede di fare qualcos’altro. E in questo caso la paga è pessima. Uno dei problemi maggiori di questa retribuzione metà legale metà no, è che i periodi di festività o di malattia, nonché la liquidazione e le altre retribuzioni dovute al lavoratore alla fine dell’impiego, sono tutte calcolate solamente in proporzione a quello che percepisce legalmente, ovvero seicento euro, ed è raro che il datore di lavoro decida di pagare a parte la somma che effettivamente coprirebbe le ore lavorate.

Le persone nella condizione di Roberto sono moltissime, soprattutto in una città come Milano, dove il settore della ristorazione è enorme e assorbe un gran numero di lavoratori extracomunitari. Dai locali alla moda di Corso Sempione e Navigli ai ristorantini di periferia, dai ristoranti più tipici di zona Brera a quelli più esclusivi e costosi del centro, difficilmente non si troverà almeno un lavoratore straniero, soprattutto nascosto in cucina, e difficilmente questo sarà completamente in regola. A tutti sarà capitato di notare come molti locali si servano di barman e camerieri in prevalenza cingalesi. Magari sono messi in regola, vanno avanti a contratti di sei e otto mesi per poi essere lasciati a casa e cambiati con qualcun altro. Capita spesso di sentire discorsi xenofobi e approssimativi che additano gli immigrati come svogliati di, ma i ristoratori milanesi, e non solo, hanno capito da tempo quanto essi siano una risorsa inestimabile. Lavorano molto bene un numero elevatissimo di ore, vengono pagati il minimo, spesso con modalità uguali a quelle con le quali è retribuito Roberto, e non possono permettersi di perdere il lavoro, magari perché hanno una bambina da mantenere.

Il mese scorso nei locali della Brianza è stato condotto un blitz dagli Ispettori della Agenzia delle Entrate e sono state scoperte irregolarità nell’assunzione del personale in ben otto attività sulle ventinove controllate. Scalpore ha fatto il bar del centro di Monza dove tutto il personale era completamente in nero. E a Milano la situazione è migliore? Difficile crederlo, quasi sicuramente è peggiore, e di molto. Quanti controlli come questi vengono svolti nella nostra città? Chi possiede un’attività e decide di assumere e sfruttare dipendenti extracomunitari conta sul fatto che spesso questi ignorino quali siano i loro diritti lavorativi e forse anche l’esistenza di un sindacato che gli indichi le irregolarità e i diritti violati e tantomeno possano permettersi di pagare un commercialista o un avvocato.

Scrive Giandomenico Amendola “In un mondo urbano segnato da un reticolo di confini etnici, culturali, sociali ed economici la tensione principale è tra chi è dentro e chi è fuori”. Essere fuori vuol dire anche questo.

 

Federico Turchetti

 



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