13 dicembre 2011

arte


ABO E LA TRANSAVANGUARDIA ITALIANA

Francesco Clemente –Fourteen Stations n.III, 1981-82

ABO (Achille Bonito Oliva) vs Germano Celant. I due giganti della critica d’arte si sfidano con due mostre diversissime ma non troppo nella città meneghina. Se Celant ha proposto la sua Arte Povera sparsa per l’Italia, con sede principale presso la Triennale, ABO propone una grande retrospettiva sulla sua Transavanguardia, con seguito di mostre personali in giro per l’Italia. Cinque i protagonisti di ieri e di oggi, riuniti sotto l’etichetta di Transavanguardia proprio da Bonito Oliva alla fine degli anni ’70: Cucchi, Chia, Clemente, Paladino e De Maria. Di ciascuno dei cinque protagonisti raccoglie 15 opere, selezionate dal curatore in collaborazione con gli artisti, scegliendole tra le loro più significative, inedite o particolari.

Teorizzata nel 1979 da Achille Bonito Oliva con un saggio su Flash Art e da questi presentata per la prima volta al pubblico alla XIII Rassegna internazionale d’arte di Acireale, la Transavanguardia ha la propria consacrazione ufficiale nella sezione Aperto ’80 della 39ª Biennale di Venezia, segnando un punto di rottura con le ricerche minimaliste, poveriste, processuali e concettuali che avevano dominato gli anni Sessanta e Settanta. Un movimento artistico che sin dal suo nascere ha saputo e voluto puntare sull’identità della cultura italiana, inserendola a pieno titolo, e con una sua peculiare originalità, nel dibattito culturale internazionale degli ultimi quarant’anni. Nello stesso tempo ha portato l’arte contemporanea italiana a un livello di attenzione, da parte di collezionisti, musei e critici stranieri, del tutto nuovo.

All’idealismo progressista delle neo-avanguardie il nuovo movimento risponde con il ritorno alla manualità dell’arte e alle sue tradizioni. All’utopia del modernismo e del moderno in cui tutto è internazionale, multinazionale e globalizzato, la Transavanguardia, nel suo trans-attraversamento di linguaggi, tecniche e scelte, oppone il genius loci del singolo artista, ossia il territorio del suo immaginario, nonché una rivalutazione del proprio nomadismo culturale e dell’eclettismo stilistico, che si nutre di memorie del passato (vedi i riferimenti longobardi beneventani di Paladino) e di citazioni dalla storia dell’arte, contribuendo così al più generale processo di rielaborazione della Storia e della soggettività avviato negli anni ottanta.

L’evento milanese ruota attorno ad alcune tematiche comuni, che attraversano le diverse poetiche dei cinque artisti: il ritorno alla manualità della pittura, delle tecniche semplici e “primitive”, il narcisismo dell’artista, il doppio e l’altro, la violenza, la natura, l’incertezza della ricerca, l’inconscio, l’immagine tra disegno e astrazione, il tutto in bilico tra bi e tridimensionalità. La mostra raccoglie in tutto 66 opere: 44 provenienti da musei, fondazioni, gallerie e collezioni private italiane, e 22 da musei e collezioni europee.

Si potranno mettere così a confronto le opere dei cinque artisti, appartenenti sì a un’unica corrente ma sicuramente diversi nella propria ricerca personale: le “cupole”, i fiori e i colori sgargianti di De Maria; i dipinti un po’ espressionisti e alla Bacon di Francesco Clemente, nella sua visone dell'”arte come catastrofe”; i riferimenti a Chagall, Picabia, Picasso e De Chirico di Sandro Chia; le memorie storiche, tra forme organiche, simboliche e arcaiche di Mimmo Paladino; infine i riferimenti alla morte e alla decadenza fatti da Enzo Cucchi, in una profusione di teschi e immagini precarie sui suoi fondali desertici.

La mostra di Palazzo Reale è parte di un ciclo progressivo di sei mostre dedicato alla Transavanguardia. In concomitanza con la mostra milanese, sei importanti istituzioni italiane organizzeranno alcune giornate di approfondimento sulla Transavanguardia presiedute da uno dei cinque filosofi del comitato scientifico composto da Massimo Cacciari, Giacomo Marramao, Bruno Moroncini, Franco Rella, Gianni Vattimo, e contestualmente esporranno le opere della Transavanguardia presenti nelle loro collezioni. Alle giornate di studio prenderanno parte critici d’arte, curatori e direttori di musei. Di seguito il calendario delle giornate ancora a venire:

Mercoledì 14 dicembre 2011: ROMA – Giacomo Marramao, con Andrea Cortellessa, Stefano Chiodi e Massimiliano Fuksas – GNAM-Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea: giornata di studio e mostra-omaggio – MAXXI -Museo nazionale delle arti del XXI secolo: mostra-omaggio

Le mostre personali saranno ospitate in altrettante città italiane tra le più rappresentative della storia e dell’identità italiana, oppure legate alle vicende stesse della Transavanguardia. Le varie mostre saranno incentrate sulla recente produzione dei singoli protagonisti, partendo da un primo nucleo di opere storiche per poi seguire l’evolversi nel tempo e gli esiti ultimi delle loro ricerche artistiche.

9 dicembre 2011, MODENA – SANDRO CHIA: Modena, ex-Foro Boario, a cura di Achille Bonito Oliva e Marco Pierini e l’organizzazione della Galleria Civica di Modena.

10 dicembre 2011, PRATO – NICOLA DE MARIA: Prato, Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci, a cura di Achille Bonito Oliva e Marco Bazzini.

17 dicembre 2011, CATANZARO – ENZO CUCCHI: Catanzaro, MARCA-Museo delle Arti di Catanzaro e Santuario della Madonna della Grotta a Praia a Mare (Cosenza), a cura di Achille Bonito Oliva e Alberto Fiz.

1 marzo 2012, ROMA – MIMMO PALADINO: Roma, ex-GIL di Luigi Moretti, a cura di Achille Bonito Oliva e Mario Codognato e l’organizzazione di Civita.

Marzo 2012, PALERMO – FRANCESCO CLEMENTE: Palermo, Palazzo Sant’Elia, a cura di Achille Bonito Oliva e Francesco Gallo e l’organizzazione di Civita.

“Transavanguardia”– Palazzo Reale, fino al 4 marzo 2012 Orari: lunedì 14.30 – 19.30, martedì, mercoledì, venerdì e domenica 9.30 – 19.30, giovedì e sabato 9.30 – 22.30 Biglietti: € 9,00 intero, € 7,50 ridotto

 

 

DE LA TOUR ILLUMINA IL NATALE DI MILANO

Terzo anno di collaborazione tra Milano, Eni e Museo del Louvre in vista delle festività natalizie. Dopo il San Giovanni Battista di Leonardo da Vinci nel 2009 e la Donna allo specchio di Tiziano nel 2010, anche quest’anno Milano accoglie, nella sua sede più ufficiale, un altro grande artista, francese questa volta, che fu un grande virtuoso degli effetti luministici, Georges de La Tour. A Palazzo Marino, in Sala Alessi, sono esposti ben due dipinti dell’artista seicentesco, ricordato anche come il “Caravaggio francese”: L’adorazione dei pastori (1644 circa) e San Giuseppe falegname (1640), due tra le sue opere più famose.

Georges de La Tour occupa una posizione tutta particolare all’interno della storia dell’arte. Dopo la morte del pittore, nel 1652, la sua opera cadde nel più completo oblio. Bisognerà attendere quasi tre secoli prima che gli storici riscoprano la sua figura e a poco a poco, a partire dal 1915, ne ricostruiscano l’opera, la carriera, la vita. Di fatto de La Tour ebbe un grande successo in vita, apprezzato dai suoi connazionali, nominato pittore ufficiale del re di Francia, fu anche considerato, un po’ a torto, come un “seguace” di Caravaggio, proprio per gli straordinari effetti di luce che sapevano rischiarare in modo così convincente gli interni dei suoi dipinti. Ma sono l’atmosfera immobile, sospesa, e quasi metafisica delle sue scene che in realtà lo allontanano dal Caravaggio stesso, inventore di un realismo ben più vivo e carnale, crudo e vitale.

Resta quindi ancora da convalidare l’ipotesi di un suo viaggio in Italia durante il quale si sarebbe confrontato davvero con l’opera del grande lombardo. Più probabilmente lo conobbe tramite la mediazione di artisti caravaggeschi francesi che furono davvero in Italia e che portarono le novità del Merisi anche oltralpe.

Protagoniste di entrambi i dipinti sono due candele: una tenuta in mano da san Giuseppe durante l’Adorazione, l’altra sorretta da un piccolo Gesù bambino che osserva il padre intento nel suo lavoro di falegname. Una luce fisica ma non solo. La candela e il suo bagliore diventano luce psicologica che illumina il mistero della nascita di Cristo e in seguito quello della sua morte, illuminando sia il piccolo bambino avvolto in fasce, che il legno lavorato da Giuseppe, simbolo e presagio del legno della Croce.

Scene intime e familiari, che tuttavia colpiscono non solo per la straordinaria resa della fiamma, quanto per la luce e le ombre che essa proietta sui volti che la circondano: sono proprio questi contrasti a donare alle due opere la loro forza emotiva e simbolica. Uno stile che rimanda immediatamente ai pittori fiamminghi e alle loro scene di interni, tradizione sicuramente nota a de La Tour, e che lo ha fatto paragonare anche, e in passato confondere, con il più enigmatico dei pittori olandesi, Jan Vermeer. La luce di de La Tour è mistero. Illumina, è simbolica, a volte è nascosta: nel San Giuseppe falegname la fiamma è celata dalla mano ormai trasparente del Bambino, ne illumina a pieno il volto idealizzato, che ha ben poco di umano, e lo rende fulcro di un momento intimo e psicologico di grande intensità, in una scena che va oltre l’attimo contingente.

Lo spettatore potrà così godere di questi due dipinti in una sala allestita in modo semplice e rigoroso, in linea con le ambientazioni povere di de La Tour, e potrà avere dettagli e informazioni anche grazie ai video posti in sala, con contenuti scientifici e didattici. È previsto anche un ricco calendario di incontri per approfondire l’opera, le tematiche e la figura di uno fra i più misteriosi artisti del Seicento.

George de La Tour – fino all’8 gennaio – Palazzo Marino, Sala Alessi, Ingresso gratuito. Orari: tutti i giorni dalle 9.30 alle 19.30, giovedì e sabato dalle 9.30 alle 22.30. Chiusure anticipate alle ore 18.00 il 7, 24 e 31 dicembre. Aperto l’8 e 25 dicembre e 1°gennaio.

 

 

25 ANNI DI PIXAR A MILANO

Dopo il MOMA di New York e un tour internazionale, finalmente è arrivata a Milano ” PIXAR 25 anni di animazione”. Un viaggio nel mondo dell’immaginazione che affascinerà bambini ma non solo, alla scoperta di come si creano i personaggi animati più amati del grande schermo. Oltre settecento opere, un viaggio attraverso la creatività e la cultura digitale come linguaggio innovativo applicato all’animazione e al cinema: dal primo lungometraggio dedicato a Luxo Jr. (1986) ai grandi capolavori come Monster & Co (2001), Toy Story (1, 2 e 3), Ratatouille (2007), WALL-E (2008), Up (2009) e Cars 2 (2011).

Molti non sanno che la maggior parte degli artisti che lavorano in Pixar utilizzano i mezzi propri dell’arte (il disegno, i colori a tempera, i pastelli e le tecniche di scultura), come quelli dei digital media” – dice John Lasseter, chief creative officer di Walt Disney and Pixar Animation Studio e fondatore di Pixar. Quando si pensa ai film d’animazione, difficilmente ci si immagina artisti armati di matita e pennello, intenti a disegnare storie e personaggi. Nel mondo Pixar, invece, è proprio così. Gli artisti utilizzano i mezzi tradizionali: matite, dipinti, pastelli e sculturine, per creare i loro personaggi, così come altrettanti numerosi sono gli artisti che impiegano esclusivamente i mezzi digitali.

Ma in questo caso, è lecito parlare di arte? I disegni, le bozze e le maquettes, hanno una tale importanza artistica da essere esposte in sedi ufficiali come i musei, in questo caso il PAC di Milano? Si potrebbe così cadere in un tranello: è tutta arte quella che luccica? “Se definiamo l’arte come processo o prodotto dell’organizzazione e dell’assemblaggio di oggetti per creare qualcosa che stimoli un’emozione o una risposta, allora è chiaro che tutti gli oggetti nella mostra Pixar sono proprio questo e, quindi, rispondono alla definizione di “arte”. I nostri film sono fatti da artisti e i nostri artisti, come qualsiasi altro artista, scelgono strumenti che consentono loro di esprimere le loro idee e le loro emozioni più efficacemente. Un’ampia varietà di media e tecniche è rappresentata nella mostra: disegni a matita e pennarello, dipinti in acrilico, guazzo e acquarelli; dipinti digitali; calchi; modelli fatti a mano; e pezzi in media digitali. Alcuni dei nostri artisti, di formazione tradizionale, hanno aggiunto dipinti digitali alla loro raccolta per esprimere qualcosa che non avrebbero potuto esprimere con qualsiasi altro mezzo“, spiega esaustivamente Elyse Klaidman, direttore della Pixar University e Conservatore degli archivi.

Riflessione importante questa, perché molto spesso i film Pixar contengono rimandi stilistici, citazioni e omaggi ai percorsi classici e da sempre riconosciuti della storia dell’arte moderna e contemporanea. In tal senso, rappresentano il tentativo di continuare un discorso puramente artistico sulla ricerca della prospettiva, della spazialità e della rappresentazione verosimile che affonda le sue radici nelle esperienze del Rinascimento, Leon Battista Alberti su tutti.

E’ una sorta di “bottega rinascimentale”, per citare Lasseter (sua madre era insegnante di storia dell’arte e da sempre lo ha istruito in questa materia), che unisce artisti diversi e i fondamenti e le radici della storia dell’arte a quelle che sono le più nuove e originali invenzioni tecnologiche, con contaminazioni verso i linguaggi più contemporanei. Strumenti che rendono i film Pixar, agli occhi dei loro creatori e spettatori, opere d’arte “totali”, concetto sostenuto dalle avanguardie del primo Novecento che, con le sperimentazioni su pellicola e nuovi ritrovati, si erano auspicate una svolta nella creazione e nella fruizione di un’opera audiovisiva. La Pixar quasi 100 anni dopo, riesce a raggiungerla.

Degna di nota, all’interno di questo straordinario laboratorio che spiega passo passo la creazione di un film- dalla nascita di un personaggio, alla scelta dei colori, alla creazione 3D dei movimenti, alla colonna sonora- è sicuramente lo zootropio, disco rotante su cui si muovono i personaggi 3D di Toy Story, ognuno in una diversa posizione, e che fatto girare ad altissima velocità e con l’aiuto di un flash, permette allo spettatore di cogliere l’intera sequenza dei movimenti dei personaggi, impressionando l’immagine sulla retina dell’occhio, in un fluire di immagine continuo e affascinante.

Pixar. 25 anni di animazione – PAC Padiglione di Arte Cotemporanea, fino al 14 febbraio 2012 Orari: lunedì 14.30 – 19.30. Martedì-domenica 9.30 – 19.30 . Giovedì 9.30 – 22.30 – biglietti: € 7,00, ridotto € 5,50

 

 

BRERA INCONTRA IL PUSKIN. CAPOLAVORI DAL MUSEO RUSSO

Sono capolavori di inestimabile valore e importanza le diciassette opere provenienti dal museo Puskin di Mosca ed esposte, fino al 5 febbraio, nelle sale XV e XII della Pinacoteca di Brera. L’esposizione, promossa dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali italiano, dal Ministero della Cultura e dei Media della Federazione Russa e dal Museo Puškin, è nata in occasione dell’Anno della Cultura Italia-Russia, e ha permesso, oltre all’esposizione di Brera, anche l’organizzazione di una mostra sul Caravaggio che lo Stato Italiano presenterà al Puškin a partire dal 22 novembre. Mostre da record, per nomi e assicurazioni: il valore assicurativo dei dipinti va ben oltre il miliardo di dollari.
Tutte le opere in mostra provengono dalle collezioni di Sergei Ščukin e Ivan Morozov, i due collezionisti russi che agli albori del Novecento diventarono, con la loro passione per l’arte, testimoni degli artisti, dei movimenti e dei fermenti artistici che caratterizzarono l’Europa tra Otto e Novecento. Un periodo d’oro ineguagliabile, che permise ai due colti e brillanti collezionisti di visitare gli atelier dei pittori, di scegliere e commissionare ad hoc dipinti per i loro palazzi. Collezioni di inestimabile valore che furono fatte affluire nel museo Puskin al momento della sua creazione.

Grandi mercanti e viaggiatori, Ščukin e Morozov, in anni diversi, divennero i migliori clienti delle più importanti gallerie di Parigi, come Druet, Durand-Ruel, Kahnweiler e Vollard, uomini che decretarono la fortuna di artisti come Monet e Cezanne, e che divennero amici e confidenti degli artisti stessi e dei loro collezionisti. Una scelta tutta personale quella dei due gentiluomini russi, che non seguirono le mode ma anzi le anticiparono, comprando e sostenendo artisti al tempo ben poco famosi.

Come spesso accade, i collezionisti si legarono in particolar modo ad alcuni artisti, creando un rapporto unico e speciale che permise la nascita di capolavori assoluti, quali i famosissimi Pesci rossi di Matisse, dipinto nel 1911 per Ščukin, che diventò il patron dell’artista. Con ben trentasette dipinti acquistati, Ščukin dedicò il salone centrale della propria abitazione alle opere di Matisse, che dispose personalmente i dipinti per l’amico mecenate. Ma Ščukin non si occupò solo di Matisse. Un altro dei suoi artisti favoriti fu Picasso, del quale divenne, dopo una prima fase di incertezza, un grande sostenitore, comprando più di cinquanta tele.

Anche Ivan Morozov fu un grande collezionista, ammiratore di Cezanne e cliente affezionato di Ambrosie Vollard, mercante-gallerista-soggetto spesso ritratto dallo stesso Cezanne. Di proprietà Morozov fu anche lo splendido Boulevard des Capucinnes di Monet, che segnò la svolta di Morozov come collezionista, e che da quel momento in poi agì tanto in grande da superare talvolta lo stesso Ščukin. In quindici anni riuscì a raccogliere oltre duecento opere attraverso le quali è possibile leggere l’evoluzione della pittura francese moderna.

Tanti gli artisti e le opere presenti in mostra. Pregevole è La ronda dei carcerati (1890) di Vincent Van Gogh, come anche Eiaha Ohipa (Tahitiani in una stanza. “Non lavorare!”), 1896, di Gauguin, dal gusto esotico e misterioso; le sempre grandiose Ninfee bianche di Monet, Le riva della Marna. (Il ponte sulla Marna a Creteil) di Cezanne, e la Radura nel bosco a Fontainebleau di Sisley. Ma il percorso non si esaurisce qui, proseguendo anzi in una panoramica esaustiva dell’evoluzione dell’arte di inizio Novecento. Oltre ai già citati Pesci Rossi di Matisse, da segnalare sicuramente sono il Ritratto di Ambroise Vollard (1910) di Picasso; la Veduta del ponte di Sèvres, 1908, di Henri Rousseau detto il Doganiere e La vecchia città di Cagnes (Il castello), 1910, di Derain. Un’occasione unica per vedere grandi capolavori da uno dei principali musei russi, nella cornice dei grandiosi capolavori dell’arte del passato conservati a Brera.

Brera incontra il Puškin. Collezionismo russo tra Renoir e Matisse – fino al 5 febbraio 2012 – Biglietto solo Pinacoteca: € 6,00 Intero, € 3,00 Ridotto – Biglietto Pinacoteca + Mostra: € 12,00 Intero, € 9,00 RidottoOrario di apertura: h 8.30-19.15 dal martedì alla domenica

 

 

LE “GALLERIE D’ITALIA” NEL CUORE DI MILANO

Dopo il Museo del Novecento, apre a Milano, in centro che più centro non si può, un altro museo destinato a diventare una realtà importante del panorama artistico milanese. Hanno infatti debuttato in pompa magna le “Gallerie d’Italia”, museo-polo museale in piazza Scala, ospitato negli storici palazzi Anguissola e Brentani, restaurati per l’occasione. Un avvenimento cittadino, che ha avuto un’intera nottata di eventi e inaugurazioni dedicate.

Si è iniziato con “Risveglio”, videoproiezione sui palazzi di piazza Scala, a cura di Studio Azzurro, ispirate all’omonimo dipinto Risveglio (1908-23) di Giulio Aristide Sartorio (di proprietà della fondazione Cariplo), artista liberty e simbolista, esposto all’interno del museo. C’è stato poi un incontro con il filosofo Remo Bodei, con una riflessione sul bello e sul valore dei musei, per poi passare alle visite gratuite per il grande pubblico del Teatro alla Scala.

Una serata fitta d’impegni, che si è protratta fino all’una di notte, per permettere ai tanti visitatori in fila nonostante la pioggia battente, di visitare gratuitamente il nuovo museo. E in effetti valeva la pena di aspettare per vedere le tredici sezioni di questo museo che comprende, cronologicamente e per temi, tanti capolavori del nostro passato per approdare poi ai Futuristi. Un ideale partenza per visitare poi il vicino Museo del Novecento.

Un museo voluto e creato, nonostante i tempi poco propizi, da Intesa Sanpaolo e Fondazione Cariplo, da sempre attente all’arte e alla cultura, che grazie al progetto architettonico di Michele de Lucchi, ospita 197 opere dell’Ottocento italiano, in particolare lombardo, delle quali 135 appartenenti alla collezione d’arte della Fondazione Cariplo e 62 a quella di Intesa Sanpaolo. Il percorso espositivo di 2.900 mq, curato da Fernando Mazzocca, propone un itinerario alla scoperta di una Milano ottocentesca, assoluta protagonista del Romanticismo e dell’industrializzazione, ma anche di altre scuole artistiche e correnti.

Aprono il percorso i tredici bassorilievi in gesso di Antonio Canova, che già di per sé varrebbero la visita, ispirati a Omero, Virgilio e Platone; si passa poi ad Hayez e alla pittura romantica, con il suo capolavoro “I due Foscari“; largo spazio è stato dedicato a Giovanni Migliara e Giuseppe Molteni, per passare a Gerolamo Induno; alla sezione dedicata al Duomo di Milano e alle sue vedute prospettiche e quella dedicata ai Navigli. Se a palazzo Anguissola tutto era un trionfo di stucchi, specchi e puttini, l’ambientazione cambia quando si passa al contiguo palazzo Brentani, con la pittura di genere settecentesca, i macchiaioli, con Segantini e Boldini, i divisionisti, il Simbolismo di Angelo Morbelli e Previati, per arrivare all’inizio del ‘900 con quattro dipinti di Boccioni, ospitati in un ambiente altrettanto caratteristico ma più neutro e museale.

Al centro, nel cortile ottagonale, troneggia un disco scultura di Arnaldo Pomodoro. Ma non è finita qui. Al settecentesco Palazzo Anguissola e all’adiacente Palazzo Brentani, si affiancherà nella primavera del 2012 la storica sede della Banca Commerciale Italiana, che ospiterà la nuova sezione delle Gallerie e vedrà esposta una selezione di opere del Novecento.

Insomma un progetto importante che, in un momento di crisi e preoccupazione globale, vuole investire e rilanciare arte, cultura e il centro città, facendo di piazza della Scala un irrinunciabile punto di riferimento, un “salotto cittadino” adatto ai turisti, ma, si spera, non solo.

Gallerie d’Italia – piazza della Scala – entrata libera fino all’apertura della sezione novecentesca del Museo, prevista nella primavera 2012 – Orari: Da martedì a domenica dalle 9.30 alle 19.30. Giovedì dalle 9.30 alle 22.30. Lunedì chiuso

 

 

L’ARTE POVERA INVADE L’ITALIA

Sono numeri da capogiro quelli legati alla mostra “Arte Povera”, esposizione organizzata da Triennale Milano e dal Castello di Rivoli, a cura di Germano Celant, che vuole celebrare coralmente questo movimento italiano con una serie di iniziative sparse per il Bel Paese. Sette le città coinvolte, otto i musei ospitanti, 250 le opere esposte, 15 mila i metri quadrati, tra architetture museali e contesti urbani, usati per contenere ed esporre le spesso monumentali opere d’arte.

L’operazione ha dell’eccezionale, mettendo insieme direttori, esperti, studiosi e musei, che si sono trovati d’accordo nel creare e ospitare una rassegna che testimoni la storia del movimento nato nel 1967 grazie agli artisti Alighiero Boetti, Mario e Marisa Merz, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto, Jannis Kounellis, Giulio Paolini e tanti altri.

Un movimento che deve la sua definizione proprio al curatore e al creatore di questa impresa, Germano Celant, che usò il termine per la prima volta in occasione di una mostra genovese di quel anno, volendo definire una tendenza molto libera, in cui gli artisti lasciavano esprimere i materiali e le materie (acqua, fuoco, tele, pietre ecc.), non controllati esteticamente o plasticamente, ma anzi usati per esprimere energie e mutamenti interni ad essi.

Così ecco lanciata la sfida, raccontare la storia di questo movimento, prontamente raccolta da alcune delle istituzioni museali più importanti d’Italia: Triennale Milano e il Castelli di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, veri promotori, la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, la GAMeC di Bergamo, il MADRE di Napoli, il MAMbo di Bologna, il MAXXI di Roma e il Teatro Margherita di Bari.

Ogni sede ospita un “pezzo di storia” del movimento, che in una visione d’insieme, permetteranno al visitatore-pellegrino di ricomporre e afferrare ogni aspetto dell’arte dagli anni ’60 ad oggi.

In particolare presso la Triennale, sede cardine dell’evento, si potrà avere una bella visione d’insieme grazie ad “Arte Povera 2011”, rassegna antologica sul movimento, che in uno spazio di circa 3000 metri quadrati, raccoglie oltre 60 opere, per testimoniare l’evoluzione del percorso artistico fino al 2011, grazie alla collaborazione di musei, artisti, archivi privati e fondazioni.

La prima parte si sviluppa al piano terra, ed è dedicata alle opere storiche degli artisti, realizzate tra 1967 e 1975, e che ne segnano in qualche modo il loro esordio nel mondo dell’arte: i cumuli di pietra e tele di Kounellis; gli intrecci al neon di Mario Mez; gli immancabili specchi di Pistoletto; i fragili fili di nylon e le foglie secche nelle opere di Marisa Merz; le scritte in piombo e ghiaccio di Pier Paolo Calzolari; e tanti altri.

Al secondo piano, nei grandi spazi aperti, in un percorso fluido e spazioso, sono documentate le opere realizzate dagli artisti tra 1975 e 2011, in un continuo e contemporaneo dialogo tra loro.

Nei 150 anni dell’Unità d’Italia, una grande operazione museale ed espositiva che riunisce artisti, musei e grandi nomi, in un’operazione nazionale che rende giustizia, e ne tira idealmente le somme, di un movimento, italianissimo, e tuttora vivente.

Arte Povera 1967 – 2011-fino al 29 gennaio – Triennale di Milano – Ingresso 8,00/6,50/5,50 – Orari:martedì-domenica 10.30-20.30, giovedì e venerdì 10.30-23.00

Le altre sedi:

*24 settembre – 26 dicembre 2011, MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna, Bologna “Arte Povera 1968

*7 ottobre 2011 – 8 gennaio 2012, MAXXI – Museo nazionale delle arti del XXI secolo, Roma “Omaggio all’Arte Povera

*9 ottobre 2011 – 19 febbraio 2012 Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli “Arte Povera International

*25 ottobre 2011 – 29 gennaio 2012, Triennale di Milano, Milano “Arte Povera 1967-2011

*novembre 2011 – aprile 2012, GAMeC Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo “Arte Povera in città

*11 novembre 2011 – aprile 2012, MADRE – Museo d’Arte contemporanea Donnaregina, Napoli “Arte Povera più Azioni Povere 1968

*7 dicembre 2011 – 4 marzo 2012, Galleria nazionale d’arte moderna, Roma “Arte Povera alla GNAM

*15 dicembre 2011 – 11 marzo 2012, Teatro Margherita, Bari “Arte Povera in teatro

 

 

CEZANNE E LES ATELIERS DU MIDI

Palazzo Reale presenta, per la prima volta a Milano, un protagonista indiscusso dell’arte pittorica, colui che traghetterà simbolicamente la pittura dall’Impressionismo al Cubismo; colui che fu maestro e ispiratore per generazioni di artisti: va in scena Paul Cezanne. Sono una quarantina i dipinti esposti, con un taglio inedito e particolare, dovuto a vicende alterne che hanno accompagnato fin dall’origine la nascita di questa grande esposizione, intitolata “Cézanne e les atéliers du midi“.

E’ appunto da questo titolo che tutto prende forma. L’espressione “ateliers du midi” fu coniata da Vincent Van Gogh, il cui progetto ero quello di creare una comunità di artisti riuniti in Provenza, una sorta di novella bottega, in cui tutti avrebbero lavorato in armonia. Un progetto che, come è noto, non portò mai a termine, ma dal quale Rudy Chiappini e Denis Coutagne, curatori della mostra, hanno preso spunto per delineare il percorso artistico di Cezanne.

La mostra è un omaggio al grande e tenace pittore solitario, nato ad Aix-en-Provence, luogo al quale fu sempre attaccato, e che nei suoi continui spostamenti tra il paese natio, Parigi e l’Estaque, creò quella che da sempre è stata considerata la base dell’arte moderna.

Il tema portante dell’esibizione riguarda l’attività di Cezanne in Provenza, legata indissolubilmente ai suoi ateliers: prima di tutti il Jas de Bouffan, la casa di famiglia in cui Cezanne compie le sue prime opere e prove giovanili; la soffitta dell’appartamento di Rue Boulegon; il capanno vicino alle cave di Bibémus; i locali affittati a Château Noir; la piccola casa a l’Estaque, e infine il suo ultimo atelier, il più perfetto forse, costruito secondo le indicazioni del pittore stesso, l’atelier delle Lauves.

Luoghi carichi di significato e memoria, in cui il maestro si divise, nelle fasi della sua vita, tra attività en plein air, seguendo i consigli degli amici Impressionisti, e opere “sur le motiv”, una modalità cara a Cezanne, che della ripetizione ossessiva di certi soggetti ne ha fatto un marchio di fabbrica. Opere realizzate e rielaborate all’interno dello studio, luogo di creazione per ritratti, nature morte, composizioni e paesaggi. Ma l’atelier è anche il luogo della riflessione per Cezanne, artista tormentato e quasi ossessivo nel suo desiderio di dare ordine al caos, cercando equilibrio e rigore, usando soprattutto, secondo una sua celebre frase, il cilindro, la sfera e il cono. “In natura tutto è modellato secondo tre modalità fondamentali: la sfera, il cono e il cilindro. Bisogna imparare a dipingere queste semplicissime figure, poi si potrà fare tutto ciò che si vuole“.

Una mostra che vanta prestiti importanti (quale un dipinto dall’Hermitage); che coinvolge un’istituzione importante come il Museo d’Orsay, e che ha nel suo comitato scientifico proprio il direttore del museo e il pronipote dell’artista, Philippe Cezanne. Con un allestimento semplice ma accattivante, merito anche dei grandi spazi, il visitatore potrà scoprire i primi e poco noti lavori del maestro francese, le opere murali realizzate per la casa paterna e i primi dipinti e disegni ispirati agli artisti amati, come Roubens, Delacroix e Courbet.

Dal 1870 Cezanne trascorrerà sempre più tempo tra Parigi, in compagnia dell’amico di scuola Emile Zola, e la Provenza. Nascono quindi inediti soggetti narrativi, usando lo stile en plein air suggeritogli da Pissarro. Si schiariscono i colori e le forme sono più morbide: ecco le Bagnanti, ritratte davanti all’amata montagna-feticcio Sainte Victorie.

Stabilitosi quasi definitivamente in Provenza, eccolo licenziare alcuni dei suoi paesaggi più straordinari, con pini, boschi e angoli nascosti, tra cui spiccano quelli riguardanti le cave di marmo di Bibemus, luogo amato e allo stesso tempo temuto da Cezanne, che vedeva nella natura il soggetto supremo, il principio dell’ordine, ma che al tempo stesso poteva essere anche nemica e minaccia.

Capolavori della sua arte sono anche i ritratti, dipinti in maniera particolare e insolita. Sono ritratti di amici e paesani, di gente comune che Cezanne fissa su tela senza giudicare né esprimere pareri, figure immobili ed eterne, come le sue nature morte. E sono proprio queste le composizioni più mature, tra cui spicca per bellezza “Il tavolo di cucina – Natura morta con cesta“, (1888-1890), dalle prospettive e dai piani impossibili, con una visione lontanissima dalla realtà e dal realismo imitativo, con oggetti ispirati sì da oggetti reali, tra cui le famosissime mele, ma reinventati in chiave personale.

Una mostra dunque densa di spunti per comprendere l’opera del pittore di Aix, complementare alla mostra del Musée du Luxembourg di Parigi, intitolata “Cezanne et Paris“, che indagherà invece gli anni parigini e approfondirà il rapporto tra Cezanne, gli Impressionisti e i post Impressionisti.

Cézanne e les atéliers du midi. Fino al 26 febbraio, Palazzo Reale. Orari: 9.30-19.30; lun. 14.30-19.30; gio. sab. 9.30-22.30. Costi: intero euro 9, ridotto euro 7,50.

 

 

I VISCONTI E GLI SFORZA RACCONTATI ATTRAVERSO I LORO TESORI

In occasione del suo primo decennale, il Museo Diocesano ospita, fino al 29 gennaio, una mostra di capolavori preziosi e di inestimabile valore, intitolata “L’oro dai visconti agli Sforza”. Una mostra creata per esplorare, per la prima volta in Italia, l’evoluzione dell’arte orafa a Milano tra il XIV e il XV secolo, attraverso sessanta preziose opere tra smalti, miniature, arti suntuarie, oggetti di soggetto sacro e profano, provenienti da alcuni tra i musei più prestigiosi del mondo.

I Visconti e gli Sforza sono state due tra le famiglie più potenti e significative per la storia di Milano. Con la loro committenza hanno reso la città una tra le più attive d’Europa artisticamente e culturalmente. Una città che ha ospitato maestranze e botteghe provenienti da tutta Europa, che qui si sono trasferite per soddisfare le esigenze di una corte sempre più ricca e lussuosa, che chiedeva costantemente oggetti preziosi e raffinati per auto celebrarsi e rappresentarsi.

Oltretutto non va dimenticato che a Milano e dintorni due erano i cantieri principali che attiravano artisti di vario tipo: il Duomo, iniziato nel 1386 su commissione viscontea, e il castello di Pavia, iniziato nel 1360 per volere di Galeazzo Visconti.

Due in particolare sono le figure a cui ruotano intorno le vicende milanesi del periodo, uomini forti che costruirono le fortune delle loro famiglie e che furono anche committenti straordinari: Gian Galeazzo Visconti e Ludovico il Moro. Gian Galeazzo fu il primo dei Visconti a essere investito del titolo ducale, comprato dall’imperatore di Boemia nel 1395, titolo che legittimò una signoria di fatto che risaliva al 1200. L’altra figura di rilievo fu Ludovico il Moro, figlio del capitano di ventura Francesco Sforza, che sposa la figlia dell’ultimo Visconti, dando inizio così alla dinastia sforzesca. Ludovico il Moro, marito di Beatrice d’Este, fu uomo politico intraprendente ma soprattutto committente colto e attivo, che chiamò presso la sua corte uomini d’ingegno come Leonardo Da Vinci, Bramante e molti altri tra gli artisti più aggiornati del panorama europeo.

La mostra prende inizio da due inventari, quello dei gioielli portati in dote da Valentina Visconti, figlia di Gian Galeazzo, andata in sposa a Luigi di Turenna, fratello del re di Francia; e quello dei preziosi di Bianca Maria Sforza, figlia di Ludovico il Moro, andata in sposa all’imperatore Massimiliano I. Proprio questi elenchi hanno permesso di ricostruire l’entità del tesoro visconteo-sforzesco, e di ricostruire e di riunire insieme i principali oggetti per questa mostra.

Il percorso si snoda tra pezzi di pregiata fattura, come gli scudetti di Bernabò Visconti, zio di Gian Galeazzo, che ci mostrano una delicata tecnica a smalto traslucido; oppure la preziosa minitura con una dama, opera di Michelino da Besozzo, forse il più importante miniatore del secolo, che con tratti fini e delicati ci mostra una dama vestita alla moda dell’epoca, con maniche lunghe e frappate e il tipico copricapo “a balzo”, espressione modaiola delle corti lombarde. Lavoro da mettere a confronto con il fermaglio di Essen (opera in dirittura di arrivo), pezzo d’oreficeria finissima, una micro scultura rappresentante la stessa enigmatica dama.

Altro pregevole pezzo è sicuramente il medaglione con la Trinità, recante il “nuvoloso” visconteo, emblema della famiglia, dipinto in smalto “ronde bosse”, tecnica tra le più raffinate e costose. Proprio gli smalti sono una delle tecniche più rappresentative dell’oreficeria visconteo-sforzesca, con un ventaglio di tipologie vario e virtuosistico, attraverso cui le botteghe milanesi erano conosciute in tutta Europa. Ma d’altra parte Milano aveva una lunga tradizione smaltista alle spalle, basti pensare all’altare di Vuolvino, nella basilica di sant’Ambrogio.

Uno dei passatempi preferiti della corte erano le carte: ecco dunque sei bellissimi esemplari di Tarocchi, provenienti da Brera, interamente coperti di foglia d’oro, punzonati e dipinti, testimonianza unica e ben conservata della moda, dei costumi e delle tecniche dell’epoca. Dalla dinastia viscontea si passa poi a quella sforzesca, con reliquari e tabernacoli che si ispirano al duomo di Milano per struttura e composizione, opere di micro architettura in argento e dipinte in smalto a pittura, come il Tabernacolo di Voghera o quello Pallavicino di Lodi.

Ma è la miniatura a farla da padrone, con il messale Arcimboldi, che mostra Ludovico il Moro, novello duca di Milano circondato dal suo tesoro; il Libro d’Ore Borromeo, famiglia legata a doppio filo a quella dei duchi di Milano; e il Canzoniere per Beatrice d’Este, opera del poeta Gasparo Visconti, con legatura smaltata che ripropone fiammelle ardenti e un “groppo” amoroso, il nodo che tiene uniti i due amanti, raffigurazione illustrata di un sonetto del canzoniere.

Anche Leonardo gioca la sua parte, indirettamente, in questa mostra. Il maestro si occupò infatti anche di smalti, perle, borsette e cinture, che alcuni suoi allievi seguirono nelle indicazioni, come ci mostrano l’anconetta con la Vergine delle rocce del museo Correr o la “Pace” proveniente da Lodi. Insomma un panorama vario e ricco che mostra tutto il lusso e la raffinatezza di una delle corti più potenti d’Europa.

Oro dai Visconti agli Sforza. fino al 29 gennaio – Museo Diocesano – corso di Porta Ticinese 95. Orari: tutti i giorni ore 10-18, chiuso lunedì. Costo: 8 € intero, 5 € ridotto, martedì 4 €.

 

 

ARTEMISIA GENTILESCHI. VITA, AMORI E OPERE DI UNA PRIMADONNA DEL ‘600

Artemisia Lomi Gentileschi è stata una delle numerose donne pittrici dell’arte moderna, ma la sola, forse, ad aver ricevuto successo, notorietà, fama e commissioni importanti in quantità. Ecco perché la mostra “Artemisia Gentileschi -Storia di una passione”, ospitata a Palazzo Reale e da poco aperta, si propone di ristudiare, approfondire e far conoscere al grande pubblico la “pittora” e le sue opere, per cercare di slegarla all’episodio celeberrimo di violenza di cui fu vittima. Sì perché il nome di Artemisia è spesso associato a quello stupro da lei subito, appena diciottenne, da parte del collega e amico del padre, Agostino Tassi, che la violentò per nove mesi, promettendole in cambio un matrimonio riparatore.

Donna coraggiosa, che ebbe il coraggio di ribellarsi e denunciare il Tassi, subendone in cambio un lungo e umiliante processo pubblico, il primo di tal genere di cui ci siano rimasti gli atti scritti. La mostra, quasi una monografica, si propone anche di dare una individualità tutta sua alla giovane pittrice, senza trascurare però gli esordi con il padre, l’ingombrante e severo Orazio Gentileschi, amico di Caravaggio e iniziatore della figlia verso quel gusto caravaggesco che tanto fu di moda; o senza tralasciare lo zio, fratello di Orazio, Aurelio Lomi, pittore manierista che tanto fece per la nipote.

Il percorso si snoda dunque dalla giovanile formazione nella bottega paterna, per una donna pittrice ai tempi non poteva essere altrimenti, per arrivare alle prime opere totalmente autonome e magnifiche, dipinte per il signore di Firenze Cosimo II de’ Medici. La vita di Artemisia fu rocambolesca e passionale. Dopo il processo a Roma si spostò a Firenze con il neo marito Pietro Stiattesi, e fu lì che conobbe i primi successi – fu la prima donna a essere ammessa all’Accademia del Disegno di Firenze- e un grande, vero amore, Francesco Maria Maringhi, nobile fiorentino con cui avrà una relazione che durerà per tutta la loro vita. Dati, questi, che si sono recuperati solo in tempi recentissimi grazie a uno straordinario carteggio autografo di Artemisia, del marito e dell’amante. E proprio le lettere sono state un punto di partenza importante per nuove attribuzioni, scoperte e ipotesi su dipinti prima nel limbo delle incertezze.

In mostra ci sono quasi tutte le opere più famose di Artemisia (peccato per un paio di prestiti importanti che non sono arrivati): le due cruente e violentissime Giuditte che decapitano Oloferne, da Napoli e dagli Uffizi, lette così spesso in chiave autobiografica (Artemisia-Giuditta che decapita in un tripudio di sangue Oloferne/Agostino Tassi); le sensuali Maddalene penitenti; eroine bibliche come Ester, Giaele, Betsabea e Susanna; miti senza tempo come Cleopatra e Danae, varie Allegorie e Vergini con Bambino. Ma Artemisia fu famosa anche per i suoi ritratti, di cui pochi esempi ci sono rimasti, come il “Ritratto di gonfaloniere” o il “Ritratto di Antoine de Ville”, così come per i suoi autoritratti. Le fonti ce la raccontano come donna bellissima e sensuale, pienamente consapevole del suo fascino e del suo ruolo, che amava dipingersi allo specchio e regalare queste opere ai suoi ammiratori.

Così la mostra si snoda tra Firenze, da cui i coniugi Stiattesi scappano coperti dai debiti, per arrivare a Roma, Venezia, Napoli e perfino in Inghilterra, dove la volle il re Carlo I. Una vita ricca di passioni, appunto, come l’amore per la figlia Palmira, che diverrà anch’essa pittrice e valido aiuto nella bottega materna che Artemisia aprirà a Napoli fin dagli anni Trenta del Seicento, ricca di giovani promettenti pittori come Bernardo Cavallino. Una vita ricca anche di conoscenze e amicizie importanti: ventennale il rapporto epistolare con Galileo Galilei, conosciuto a Firenze, con Michelangelo il Giovane, pronipote del genio fiorentino, e anche con una serie di nobili e committenti per cui dipinse le sue opere più celebri: Antonio Ruffo, Cassiano dal Pozzo, i cardinali Barberini e l’arcivescovo di Pozzuoli, per il quale fece tre enormi tele per adornare la nuova cattedrale nel 1637, la sua prima vera commissione pubblica.

Insomma una donna, una madre e un’artista straordinaria, finalmente messa in luce in tutta la sua grandezza, inquadrata certo nell’alveo del padre Orazio e di quel caravaggismo che la resa tanto famosa, ma vista anche come pittrice camaleontica e dall’inventiva straordinaria, capace di riproporre uno stesso soggetto con mille varianti, secondo quella varietas e originalità per cui fu, giustamente, così ricercata.

Artemisia Gentileschi. Storia di una passione – fino al 29 gennaio Palazzo Reale. Orari: 9.30-19.30; lun. 14.30-19.30; gio. e sab. 9.30-22.30. Intero: € 9,00. Ridotto: € 7,50

 

 

DOPPIO KAPOOR A MILANO

Sono tre gli appuntamenti che l’Italia dedica quest’anno ad Anish Kapoor, artista concettuale anglo-indiano. Due di questi sono a Milano, e si preannunciano già essere le mostre più visitate dell’estate. Il primo è alla Rotonda della Besana, dove sono esposte sette opere a creare una mini antologica; il secondo è “Dirty Corner“, installazione site-specific creata apposta per la Fabbrica del Vapore di via Procaccini. Entrambe curate da Demetrio Paparoni e Gianni Mercurio, con la collaborazione di MADEINART, gli stessi nomi che hanno curato anche la retrospettiva di Oursler al Pac.

Una mostra di grande impatto visivo, quella della Besana, con opere fatte di metallo e cera, realizzate negli ultimi dieci anni e che sono presentate in Italia per la prima volta. Opere di grande impatto sì, ma dal significato non subito comprensibile. Kapoor è un artista che si muove attraverso lo spazio e la materia, in una continua sperimentazione e compenetrazione tra i due, interagendo con l’ambiente circostante per “cercare di generare sensazioni, spaesamenti percettivi, che porteranno a ognuno, diversi, magari insospettabili significati”, come spiega l’artista stesso. Ecco perché non tutto è lineare, come si può capire guardando le sculture in acciaio “C-Curve” (2007), “Non Object (Door)” 2008, “Non Object (Plane)” del 2010, ed altre che provocano nello spettatore una percezione alterata dello spazio. Figure capovolte, deformate, modificate a seconda della prospettiva da cui si guarda, un forte senso di straniamento che porta quasi a perdere l’equilibrio. Queste solo alcune delle sensazioni che lo spettatore, a seconda dell’età e della sensibilità, potrebbe provare davanti a questi enormi specchi metallici.

Ma non c’è solo il metallo tra i materiali di Kapoor. Al centro della Rotonda troneggia l’enorme “My Red Homeland“, 2003, monumentale installazione formata da cera rossa (il famoso rosso Kapoor), disposta in un immenso contenitore circolare e composta da un braccio metallico connesso a un motore idraulico che gira sopra un asse centrale, spingendo e schiacciando la cera, in un lentissimo e silenzioso scambio tra creazione e distruzione. Un’opera, come spiegano i curatori, che non potrebbe esistere senza la presenza indissolubile della cera e del braccio metallico, in una sorta di positivo e negativo (il braccio che buca la cera), e di cui la mente dello spettatore è comunque in grado di ricostruirne la totalità originaria.

Il lavoro di Kapoor parte sempre da una spiritualità tutta indiana che si caratterizza per una tensione mistica verso la leggerezza e il vuoto, verso l’immaterialità, intesi come luoghi primari della creazione. Ecco perché gli altri due interessanti appuntamenti hanno sempre a che fare con queste tematiche: “Dirty Corner“, presso la Fabbrica del Vapore, un immenso tunnel in acciaio di 60 metri e alto 8, all’interno dei quali i visitatori potranno entrare, e “Ascension”, esposta nella Basilica di San Giorgio Maggiore a Venezia, in occasione della 54° Biennale di Venezia. Opera già proposta in Brasile e a Pechino ma che per l’occasione prende nuovo significato. Un’installazione site-specific che materializza una colonna di fumo da una base circolare posta in corrispondenza dell’incrocio fra transetto e navata della maestosa Basilica e che sale fino alla cupola.

ANISH KAPOOR – Fabbrica del Vapore, via Procaccini 4 – fino all’12 gennaio 2012 Orari: lun 14.30 – 19.30. Mar-dom 9.30-19.30. Giov e sab 9.30-22.30. Costi: 6 € per ciascuna sede, 10 € per entrambe le sedi.

 

 

 

 

questa rubrica è a cura di Virginia Colombo

rubriche@arcipelagomilano.org


 



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