13 dicembre 2011

musica


UN “ALTRO” DON GIOVANNI

Della “prima” di Sant’Ambrogio alla Scala, e cioè di questo Don Giovanni di Carsen e di Barenboim, si è scritto di tutto, persino troppo, si è fatta molta confusione e si son dette non poche sciocchezze, a cominciare dallo stupido e volgare paragone fra il protagonista dell’opera e Berlusconi (vedi Sgarbi, sul Corriere, che confronta il caviale alle lenticchie!). Poiché fra teatro, schermi nelle piazze, cinematografi e televisioni pare l’abbiano visto tutti o quasi tutti gli amanti di musica – e dunque, immagino, anche i nostri quattro lettori – andiamo subito al dunque e cioè al nocciolo delle questioni che secondo noi sono principalmente tre.

Prima questione: il personaggio del Don Giovanni.

Carsen (con l’ovvia complicità di Barenboim) ha voluto raccontare un personaggio diverso da quello di Da Ponte, forse più vicino a quello che aveva in testa Mozart, e cioè piuttosto che il “dissoluto” meritevole della massima punizione possibile (quella di morire precipitando direttamente all’inferno) per i tanti tradimenti perpetrati, un personaggio fondamentalmente positivo, l’uomo che le ama tutte per non scontentar nessuna (“chi a una sola è fedele verso l’altre è crudele“), meritevole di comprensione e di ammirazione da parte del pubblico e persino di gratitudine da parte delle sue vittime. Le quali, invece, sarebbero creature biasimevoli per la loro condotta contraddittoria e sostanzialmente lasciva, come dimostrano i loro comportamenti sulla scena (Anna sa di tradire Ottavio concedendosi al seduttore, Elvira nonostante prenda le difese delle compagne è disponibile sempre a cedergli, persino quando si presenta sotto mentite spoglie, e Zerlina poi, fin dalle prime mosse furbetta e doppiogiochista) e il loro abbigliamento quasi sempre discinto, quanto meno da donne libere e intraprendenti!

Dunque sono stati totalmente rovesciati i significati del libretto (della musica si può discutere) quasi a voler dimostrare che il mito di Don Giovanni resta immutato anche in un sistema di valori diverso da quello dell’abate Lorenzo e dell’ipocrita corte viennese. Resta da chiedersi, oltre alla legittimità dell’operazione, se sta in piedi logicamente: ad esempio nella prima scena sembra che donn’Anna sappia bene chi è colui che si è introdotto nella sua stanza e con cui sta facendo all’amore con tanto entusiasmo (nel testo originale, invece, l’assalto avviene al buio – “donna folle, indarno gridi, chi son io tu non saprai!” – e donn’Anna rischia di essere l’innocente vittima di un vero e proprio stupro, salvata dal padre che accorre alle grida di aiuto). Ciò comporta conseguentemente che nella tredicesima scena, con il povero don Ottavio, ella debba fingere di essere sconvolta nel riconoscere la voce del suo assalitore.

E così accade che nel finale, rivelando definitivamente le proprie intenzioni, il regista manda all’inferno tutti coloro che han goduto dei favori del nostro eroe il quale, beffardo e soddisfatto, accendendosi una sigaretta, li osserva precipitare nel rogo. Mah … certamente non era questa la storia, almeno fino a ieri. Noi saremmo in linea di principio molto prudenti nei confronti di questi stravolgimenti; li guardiamo con interesse ma anche con sospetto, e questa volta vorremmo sospendere il giudizio anche perché siamo in presenza di un’ondata emotiva molto forte. Certamente celebrare così sfacciatamente l’impunità, nel momento che attraversa oggi l’Italia, è molto sgradevole, e questo aspetto è sottolineato molto bene dall’editoriale che trovate in altra pagina del giornale. Giudicate voi.

Seconda questione: la direzione d’orchestra.

Premesso che di Barenboim più volte abbiamo denunciato qualche superficialità da “unto dal signore” o da uomo cui tutto è permesso (soprattutto nelle prestazioni più recenti al pianoforte) e che nel 1998 restammo incantati dalla velocità impressa da Daniel Harding al Don Giovanni di Aix-en-Provence poi replicato al Piccolo Teatro milanese, ebbene l’altra sera abbiamo trovato gradevolissima la lentezza di cui è stato accusato il direttore, perfettamente adatta a una situazione trasformata da “dramma giocoso” in commedia umana. Una lentezza che ha permesso a Barenboim – e ovviamente a tutto il cast – di penetrare più intimamente nell’anima dei personaggi e di descriverne piuttosto l’umanità che non il carattere o – talvolta – il ridicolo. E anche questo è molto mozartiano, tanto quanto lo era lo sfavillio scoppiettante della versione di Harding. Spiace solo che Barenboim non abbia colto quel fantastico cambiamento di ritmo e di pulsazione cardiaca con cui Mozart descrive il cedimento di Zerlina, nel passaggio dal dolcissimo Andante del “vorrei e non vorrei” all’impetuoso Allegro di “andiam, andiam mio bene – a ristorar le pene …“. Un tuffo nella voluttà che dovrebbe far impazzire chiunque e che ci è parso passare inosservato.

Terza questione: le scene e la regìa.

Non si può negare a Carsen e a Levine di aver interpretato con grande intelligenza l’invito alla sobrietà e alla parsimonia, e di aver dimostrato ancora una volta – come già fece elegantissimamente Peter Brook con lo spettacolo di Aix – che le grandi scene molto costruite non servono a rendere più comprensibile e gradevole l’opera lirica. Magnifiche sopratutto le scene giocate sugli specchi che riproducono la sala e i palchi, raddoppiandoli, sul fondo del palcoscenico, così come quelle che verso la fine dell’opera si presentano come grandiose e profonde prospettive. Bellissimi anche i colori – il rosso, il bianco e il nero – che integrano in perfetta armonia lo spettacolo nella sala del teatro.

Dobbiamo però anche dire che non è giusto disturbare l’ascolto dell’ouverture – uno dei momenti “sacri” dell’opera – con una trovata come quella di anticipare (per giunta in modo sorprendente) l’apertura del sipario, distraendo il pubblico e attizzandone la curiosità; e così dobbiamo osservare come l’insistenza sul gioco di sipari che si alzano e si abbassano in continuazione, sui quali si aprono porticine e finestrelle, e che vorrebbero fare immaginare spazi e volumi, diventa poco a poco noioso e ripetitivo.

Conclusione

A parte don Ottavio (il personaggio poco amato da Mozart, interpretato con difficoltà da Giuseppe Filianoti di cui un noto critico ha scritto che sembrava “… passare di lì per caso…“) il cast ci è sembrato ottimo, con le voci potentissime di Don Giovanni e Leporello (Peter Mattei e Bryn Terfel) e quelle bellissime delle loro vittime – o sciocche vanerelle? – donn’Anna (Anna Netrebko, interpretazione più che corretta), donna Elvira (Barbara Frittoli, la migliore) e Zerlina (Anna Prohaska, un po’ meno a proprio agio); a conti fatti, e nonostante queste riflessioni, è stato uno spettacolo magnifico che ha sicuramente reso onore alla Scala e a Milano.

 

P.S. Per colpa della “prima” alla Scala, nella rubrica non è rimasto più spazio da dedicare alla Musica per una settimana. Ce ne scusiamo con i lettori.

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org

 

 

 



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