6 dicembre 2011

cinema



GLORIA E VITA ALLA NUOVA CARNE!

«Lo schermo televisivo, ormai, è il vero unico occhio della mente umana», dice il Dottor O’Blivion in Videodrome [David Cronenberg, 1983]. Cronenberg, quasi trent’anni fa, azzardò una profonda (e ancora attuale) riflessione sul mondo massmediale con il quale ci confrontiamo quotidianamente. Il regista canadese riflette «sull’intossicazione iconica derivata dal consumo di immagini televisive e sulle modificazioni fisiche e antropologiche che la diffusione della TV sta apportando all’apparato percettivo umano» [Gianni Canova, 1992, p.54]. Un allarmante preambolo di come la società umana, nell’epoca del dominio della televisione, sia ormai mutata in un essere programmabile come un videoregistratore.

Molti spunti di pensiero offerti da Videodrome – e dalla filmografia di Cronenberg in generale – li ritrovo parecchio aderenti alla società italiana di oggi. Osservando il botteghino, specialmente nel periodo natalizio, è evidente come il gusto degli spettatori sia ferocemente condizionato dai modi e dai tempi dettati dalla televisione. I cinepanettoni aprono la controversia infinita tra il successo di pubblico e le bastonate della critica, ma non sono gli unici esemplari di film contaminati da quel “segnale Videodrome” – per riprendere Cronenberg – che porta il cinema a una mutazione “televisiva”.

Infatti, tra i campioni d’incassi dell’ultima stagione troviamo Che bella giornata [Gennaro Nunziante, Italia, 2011, 97′] con protagonista Checco Zalone e, più recente, I soliti idioti [Enrico Lando, Italia, 2011] derivato dal programma comico di grande successo di MTV. Per Zalone i tromboni dei “critici” hanno suonato (molti, ma non tutti) inni di gloria, accostandone la comicità addirittura a quella di Sua Maestà Totò; I soliti idioti, invece, sono stati trafitti dalle penne inferocite della stessa critica che, ogni anno, ferisce l’orgoglio dei Boldi e dei De Sica. In difesa, Ezio Greggio: «c’è una puzza sotto il naso tra i critici italiani assolutamente inopportuna», dice vantandosi del successo di Box Office 3D che ha fatto gli stessi incassi di Carnage di Roman Polanski. Greggio sottolinea anche come «TV e cinema ormai dialogano molto bene».

Eccola qui, allora, la chiave di tutto: quel “dialogo” tra piccolo e grande schermo che, più che dialogo pare mutazione. Il successo della televisione esplode e si propaga e, alla ricerca disperata dei grandi numeri, si impossessa del cinema. Fu il palco di Zelig a battezzare la comicità di Checco Zalone: sketch televisivo rassicurante che, al cinema, si traveste da commedia. Rassicurante è la ripetizione continua e stereotipata, consolatoria come la sicurezza che si ha acquistando un panino da McDoland’s. Replica infinita come le gag “solite e idiote” che fanno del tormentone (se volgare, meglio ancora) un’arma micidiale.

Ma il Cinema è un viaggio all’interno di mondi inventati; una menzogna bella che obbliga a riflettere e dubitare. La televisione è una bugia rassicurante. E, secondo Gianni Amelio, la distanza tra menzogna e bugia è abissale: «se la bugia è spesso meschina, la menzogna può essere grandiosa, richiede abilità e ingegno in chi la costruisce. Nella vita la menzogna è un’arte, nell’arte è vita. Si può dire che sia l’essenza del cinema (…). Nel patto con chi guarda e ascolta, la menzogna non solo è lecita ma dovuta.» [Un film che si chiama desiderio, p.321].

Il segnale Videodrome è diffuso ormai, ne è dimostrazione il botteghino che si gonfia quando la televisione ruba lo schermo al cinema. Lo spettatore è, in realtà, un telespettatore travestito da spettatore. Per Woody Allen «è assolutamente evidente che l’arte del cinema si ispira alla vita, mentre la vita si ispira alla televisione». Proprio questa ispirazione catartica tratta dalla televisione, allora, è condizione sufficiente per comprendere il successo di pubblico di alcuni film. Se l’O’Blivion di Videodrome sentenzia che «la televisione è la realtà, e la realtà è meno della televisione», noi – spettatori umili – ci consoliamo con la menzogna del Cinema. Quello vero.

Paolo Schipani

 

 

MIDNIGHT IN PARIS

di Woody Allen [USA, Spagna, 2011, 94′]

con Marion Cotillard, Owen Wilson, Rachel McAdams, Michael Sheen.

 

Jean Giraudoux ha detto che Parigi è il luogo al mondo “dove si è più pensato, più parlato, più scritto”. Gil Pender (Owen Wilson), protagonista di Midnight in Paris, ultima opera cinematografica di Woody Allen, non può che condividere il suo pensiero. “Tu in quale epoca avresti preferito vivere Don Chisciotte?” gli domanda provocatoriamente Paul (Michael Sheen), professore americano pedante e saccente.

“A Parigi negli anni ’20 sotto la pioggia”. Gli risponde istintivamente Inez (Rachel McAdams) per rimarcare l’inguaribile nostalgia del fidanzato per un periodo ormai scomparso. Né Paul, né Inez e la sua famiglia alto-borghese condividono l’amore di Gil per Parigi. Il giovane sceneggiatore non si è innamorato solo della bellezza degli edifici e dell’armonia dei tetti, ma, soprattutto, della potenza evocativa dei luoghi che nel periodo tra le due guerre mondiali hanno ospitato artisti di tutte le epoche, come Hemingway, Zelda e Scott Fitzgerald, Picasso, Cole Porter, Dalì, Bunuel e molti altri.

Quale pretesto migliore delle fantasie di un aspirante scrittore per permettere al regista di dar vita a un’epoca da sogno? Al primo rintocco della mezzanotte, una gialla ed elegante Peugeot, come la carrozza di una fiaba, si ferma lentamente davanti ai gradini della chiesa in cui Gil aspetta pensosamente. Questa inusuale macchina del tempo realizza il sogno del protagonista: essere catapultato nella adorata Parigi degli anni ’20.

Woody Allen riesce a mettere in scena qualcosa di magico. I colori antichi e sfumati sono segnali di una dimensione solo apparentemente onirica. Gil Pender è però materialmente immerso in questa atmosfera prodigiosa dove lo attendono tutti i suoi modelli letterari e artistici, fino a quel momento solo letti o immaginati.

L’aria spaesata del giovane sceneggiatore lascia lentamente spazio a un’attonita ma euforica consapevolezza. Le chiacchierate nei caffè con Hemingway, i balli sulle note di Cole Porter, le revisioni del suo manoscritto da parte di Geltrude Stein diventano presto un’abitudine quotidiana; Gil riesce, però, a non perdere quella sua spontanea devozione che lo rende così naturale ai nostri occhi.

La genialità e l’esperienza hanno permesso al regista di trasformare in immagini una sceneggiatura brillante e poetica, nella quale ogni dettaglio è curato minuziosamente per rendere indimenticabile questa fantasiosa intrusione nel passato, tanto per Gil Pender quanto per noi spettatori.

“Solo gli scemi lasciano Parigi” ha scritto Ernest Hemingway in Fiesta. Gil Pender sembra pensare alle parole del suo maestro mentre cammina sotto le gocce di pioggia della sua nuova e incantevole città.

Marco Santarpia

In sala a Milano: Colosseo, Eliseo, The Space Cinema Odeon, UCI Cinemas Bicocca, UCI Cinemas Certosa, Arcobaleno, Anteo, Apollo, Orfeo, Ducale Multisala, Plinius Multisala.

 

 

 

questa rubrica è cura di Paolo Schipani e Marco Santarpia

rubriche@arcipelagomilano.org



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