29 novembre 2011

PER UNA BREVE STORIA DEL “VERDE” CIVICO


Mille anni fa le città europee erano un agglomerato di case affacciate su stradine strette strette ai cui margini erano addossati il recinto della chiesa e quello del mercato con le loro specifiche giurisdizioni. I mille anni successivi sono stati dominati dalla volontà di renderle più belle sia allargando le vie – per apprezzare meglio le facciate delle case, sulla cui bellezza i cittadini mostrano il proprio sta-tus – sia aprendo strade e piazze tematizza-te, strade e piazze cioè con un loro specifico carattere e con una loro riconoscibilità che le ha rese significative nella nostra sfera simbolica, al cui stock tutte le città, dal villaggio alla capitale, da Trapani a Edimburgo e da Siviglia a Danzica, hanno fatto ricorso per esprimere la propria volontà di bellezza.

Tutti erano infatti in grado di riconoscerle e di apprezzarle fino a mezzo secolo fa, tutti sapevano in cosa consistesse la bellezza della loro città: forse sarebbe il caso di reimpadronirci del loro elementare lessico, se volessimo un giorno progettare una Milano più bella.

Per prima cosa i mercanti hanno aperto la strada principale con le loro botteghe – corso Vittorio Emanuele – cui, nell’ingrandirsi di Milano, sono seguite altre strade principali minori, di settori cittadini, come corso Vercelli o corso Buenos Aires o di singoli quartieri. Poi, a metà del Duecento, sono emerse le strade trionfali, quelle dritte verso un fondale in qualche misura tematizzato, a quei tempi le porte nelle mura ma in seguito la torre ricostruita del castello sforzesco e persino la stazione centrale o il grattacielo di piazza Diaz visto dalla galleria. Nel tardo Trecento compaiono le strade dove i maggiorenti concentrano le loro case, vere strade monumentali come corso Venezia o comunque con la migliore architettura dei tempi, come alla fine dell’Ottocento via Dante: a nessuno sarebbe mai venuto in mente – fino a ieri – di piantumarvi un albero, a rischio di intralciarne la visibilità e la natura.

Nella seconda metà del Cinquecento compare a Siviglia, per la prima volta, una larga passeggiata alberata, aperta e chiusa da cancellate, dove chi poteva permetterselo andava la sera a mostrarsi in carrozza, una passeggiata trasmigrata presto a Valencia e dalla locale colonia catalana promossa a Firenze, dove il granduca andava la sera in carrozza con la figliola Maria, che sposa al re di Francia ne vorrà una anche a Parigi, il cours de la Reine sul bordo della Senna, davanti alle Tuileriers, larga ottanta metri e lunga ottocento: da allora, prima o dopo, tutte le città vorranno una passeggiata alberata, a Milano l’ormai irriconoscibile, ridotta a un parcheggio e deturpata da un distributore, via Marina.

Ma, attenzione, una volta riconosciuta come un tema che rende la città più bella verrà ripresa anche quando la moda del passeggio serale sarà declinata. Ne riconosciamo l’intenzione estetica per la cospicua ampiezza e per il fatto di venire suggerite in qualche misura, come nel modello originale, aperte e chiuse da entrambi i capi: il primo e l’ultimo tratto di corso Sempione, dal lato dell’Arco della Pace e dal lato di piazza Firenze, sono larghi trenta metri, mentre il corpo centrale è allargato a novanta metri, così da rendere riconoscibile il suo voler essere una passeggiata, come via Morgagni o via Marcello e beninteso la croce di piazza Libia.

Alla fine del Seicento compaiono a Parigi, sul sedime delle mura demolite, i boulevard, ampi viali anch’essi alberati ma molto meno ampi delle passeggiate e soprattutto non idealmente chiusi ma disposti uno di seguito all’altro, spesso con una piazza a fare da cerniera: a Milano la cerchia dei bastioni spagnoli, larga trenta metri, e in seguito le due cerchie successive, larghe quaranta e cinquanta metri. Ma intanto l’idea che anche le vie residenziali sarebbero state più belle se alberate prendeva piede, purché larghe abbastanza – e purché i frontisti non reclamassero per la perdita della vista.

E poi le piazze. È Federico I Barbarossa a rivendicare, nella dieta di Roncaglia, il suo diritto di erigere per il proprio rappresentante un palazzo – in effetti i pavesi lo avevano assaltato e demolito qualche anno prima – suggerendo così che anche i Comuni dovessero avere un proprio palazzo municipale, con una piazza accanto dove riunire quell’assemblea popolare che legittimava ed eleggeva il consiglio civico convocato nel grande salone al primo piano del broletto, a Milano al centro dell’attuale piazza dei mercanti: qui gli europei letteralmente hanno inventato la piazza, e Alberto Magno, nelle sue prediche contemporanee, ne sarà così consapevole da paragonarla al Paradiso, contrapposto al dedalo delle viuzze cittadine, quasi un Inferno.

Questa è l’origine della piazza principale, dove i cittadini spontaneamente concorrono quando è in gioco la sfera della propria identità di cittadini, il cui ruolo simbolico può poi nel tempo trasferirsi in un’altra piazza sempre nel centro della città: oggi piazza del Duomo per i comizi di un tempo, per i funerali di Emilio Alessandrini, per la vittoria della Nazionale di calcio.

L’invenzione della piazza suggerirà di promuovere a piazza anche il recinto del mercato e in seguito quella davanti ai conventi dei frati mendicanti – francescani, domenicani, agostiniani – perché possano predicare ai passanti catturando forse con le proprie vigorose parole un eretico di passaggio; più tardi, nei primi decenni del Quattrocento, anche una piazza davanti alle chiese maggiori aperta soprattutto per le processioni della via crucis.

A partire dal secolo successivo verranno di moda le piazze monumentali, circondate da edifici di cospicua qualità architettonica come piazza della Scala o addirittura della medesima architettura come le plaza mayor spagnole, le place royale francesi, Piccadilly Circus a Londra e moltissime altre in quasi ogni grande città europea – a Milano piazza del Duomo – spesso dedicate allo Stato e alla Nazione erigendo al loro centro la statua del sovrano.

Eccoci ora al punto centrale, all’occasione di questo articolo: a causa del loro stesso ruolo simbolico – sito dell’assemblea civica, delle prediche, della via crucis, della coerenza architettonica, delle statue dei sovrani – a nessuno sarebbe mai venuto in mente di piantarvi qualche albero o di seminarvi un prato, come ogni tanto qualcuno vorrebbe in piazza del Duomo, mentre sono da sempre ammesse qualche bancarella e persino teatrini purché smontabili e a termine.

Ma, mentre in Italia ancora nella ricostruzione delle città in Calabria alla fine del Settecento era possibile presidiare le nuove piazze con chiese o con conventi, in Inghilterra con la soppressione dei conventi le nuove piazze verranno fin dal Seicento tematizzate semplicemente da un giardino, quei famosi square che nell’Ottocento diventeranno il modello delle nuove piazze tracciate nei piani regolatori con un giardino pubblico al centro – piazza Piola, piazzale Susa, piazza Insubria, piazza Libia, piazza Martini, piazza Napoli, piazza Siracusa e quant’altre: queste per la loro stessa natura sono invece ricche di alberi e di prati.

La volontà estetica delle città è sempre stata consapevolmente espressa nel disporre strade e piazze tematizzate in sequenze, le une di seguito alle altre, e nel disporre su queste sequenze i temi collettivi man mano maturati all’orizzonte delle città europee. Il concetto generico di “verde”, oggi così abusato, rischia di compromettere le caratteristiche specifiche di ogni piazza, della quale occorre invece mantenere quella conformazione visibile che le rende riconoscibili, a dispetto della diffusa insipienza della sfera simbolica sulla quale è fondata la riconoscibilità della città e il riconoscimento della dignità dei cittadini.

E se poi qualcuno volesse assumere come obiettivo di un nuovo piano regolatore – un PGT? – di fare della futura Milano una città davvero più bella, non avrebbe da fare altro che progettarla disegnando nuove sequenze di strade e di piazze tematizzate proprio come hanno fatto per mille anni i nostri predecessori costruendo quella città della quale ancora ammiriamo la bellezza e la volontà di eguaglianza, ché se i più abbienti abitano accanto a piazza del Duomo e a piazza della Scala, nel cuore simbolico dell’urbs, i meno doviziosi abitano in una periferia arricchita di grandiosi boulevard e di ampi square a giardino che i primi non hanno. Ma non vedo all’orizzonte arancione un motivo per sperarci.

 

Marco Romano

 



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