15 novembre 2011

LA (TREMENDA) VENDETTA DEL TERRITORIO E LA MODERNITÀ SOTTRATTA


Per chi si occupa professionalmente di problemi legati all’uso umano dello spazio, quanto è avvenuto in questi giorni non è motivo di soddisfazione, per la conferma dell’esattezza degli avvertimenti inutilmente gridati in passato, ma di rabbia: rabbia furiosa e al calor bianco per la smodata incoscienza con la quale si è saccheggiato il mondo in cui viviamo. Ma anche rabbia perché, contrariamente a quello che si crede e cioè che la colpa sia degli speculatori edilizi (come dice anche Berlusconi, che ha condonato a destra e a manca) la colpa è invece diffusa. Ma non solo e non tanto nel senso che in una nazione di proprietari di case tutti hanno il loro bagnetto accessorio o il sottotetto da aggiungere e ormai quegli strumenti regolatori che i berlusclones chiamano “calati dall’alto”, cioè che hanno una coerenza complessiva, devono essere sostituiti da quelli costruiti “dal basso”, cioè dai singoli operatori, alcuni dei quali proprio in basso non sono.

Ci sono gli speculatori, ma a questo gioco partecipano in un modo o nell’altro anche altri attori, in generale tutti coloro che hanno un pezzo di mattone e vogliono ingrandirlo, di solito passando sotto (o a fianco) delle forche caudine dei regolamenti edilizi. Un conoscente che ha una splendida villa sulla Costiera amalfitana e che appartiene alla lontana a una grande famiglia di costruttori romani (attico e superattico) un giorno mi mostrava il panorama e mi raccontava di come fosse dovuto accorrere un 31 dicembre, in limine, perché un locale stava per ottenere un diritto di costruzione che gli avrebbe tolto buona parte della prospettiva. E sgranando gli occhi mi diceva: “Professo’ qui come te vorti te fanno er sopralzo”. Non solo lì ho pensato e di sopralzo in sopralzo, non è certo chi faccia più danni. La mafia è tanto nelle grandi speculazioni, che peraltro sono visibili, e in certa misura controllabili, quanto nella diffusa illegalità omertosa.

Se poi questa piccola illegalità omertosa viene tollerata in nome della “comunità” locale si passa dall’illegale al tollerato, al lecito al meritorio che immancabilmente finisce per sgretolare ogni senso di limite e di controllo, spaccando la spina dorsale della capacità amministrativa del paese. Infatti i guai più grossi sono quelli che hanno in un modo o nell’altro contribuito al peana del localismo, della piccola comunità de noantri, alla distruzione di un “cultura” o un approccio di grande scala che è interamente lasciato ai tecnici dipendenti dei grandi signori dei flussi, che sono quelli che determinano le grandi dorsali dello sviluppo spaziale, TAV, reti elettriche, autostrade, reti del gas, e oggi reti informative. E’ stata questa cultura da italietta dei Rio Bo che ha lasciato lo spazio alla devastazione che stava avendo luogo.

Mentre le grandi trasformazioni urbane investivano la società italiana con diverse successive ondate, nel grande ciclo di espansione capitalistica del secondo dopoguerra, fino alla crisi globale del primo decennio del XXI secolo – i cicli intermedi hanno introdotto pause e distorsioni, ma l’espansione urbana non si è mai arrestata – la cultura pubblica del paese ha interpretato le trasformazioni in corso usando vecchi modelli di origine tardo-romantica sostanzialmente riferibili alla coppia toennesiana di Gemeinschaft (Comunità) vs Gesellschaft (Società), elaborata per i fenomeni di trasformazione sociale e territoriale di un secolo prima. Forse il dottor Konrad Adenauer, sindaco di Colonia negli anni venti, riflettendo un sentimento molto forte e molto diffuso nel mondo tedesco, tanto da essere poi sfruttato dal nazismo, poteva ancora dire sconsolato “noi siamo la prima generazione di tedeschi ad aver realmente vissuto la vita delle metropoli. Il risultato lo conoscete tutti” (Mitscherlisch, 1968, p. 21), ma oggi la critica alla città dal punto di vista di una supposta migliore vita comunitaria altrove, non è più così facilmente sostenibile, anche perché abbiamo visto come le ideologie autoritarie, con le politiche antiurbane e la retorica ruralista del fascismo, le mitologie naziste delle origini, le politiche anti-inurbamento di Unione Sovietica e Cina fino ad arrivare al luddismo parossistico antiurbano di Pol Pot, hanno dato ben povera prova storica nel XX secolo.

In Italia la critica non esplicita all’urbanesimo, ha sempre rappresentato un aspetto importante, anche se contraddittorio, per una società eminentemente urbana, dai tempi delle Bucoliche di Virgilio. Negli anni del dopoguerra mentre il paese viveva l’ondata di urbanizzazione più grande del pianeta, l’intellettualità si rifaceva al pasolinismo delle lucciole scomparse (non era quello il problema) alle amarezze di un Bianciardi all’attacco del capitalismo lombardo e di un “Monaldo in città”. Così si è creato un circolo vizioso, ma fortemente sinergico tra un localismo suppostamente di sinistra (la ricerca della comunità scomparsa, il lavoro di base, il “delta dei piccoli comuni”) con il localismo reazionario della Lega, della piccola produzione, della polenta con salsicce e della guerra a ogni livello superiore di integrazione, a partire dalla lingua italiana. Il tutto mescolato nel frullatore del “territorio” (“er teritorio”) termine coniato dai geni della confusione mentale per fare riferimento a una comunità socio-spaziale, vaga quanto le teorie di chi l’ha inventata.

E il territorio, giorno dopo giorno si prende la sua tremenda vendetta. Perché purtroppo l’ambiente si controlla solo con grandi infrastrutture, con forti apparati conoscitivi e regolativi e con uno stato forte, come sapevano bene i grandi “imperi idraulici” del’antichità. Anche nel nostro paese uno dei primi atti del regno unito fu il recupero dei terreni alluvionali della bassa valle del Po e dell’Adige; fu uno sforzo colossale, portato a termine da una generazione di giovani ingegneri entusiasti, largamente patrioti e socialisti che vivevano nelle aree dell’intervento a contatto con alcune delle popolazioni più povere derelitte del paese, ed è interessante notare che in quelle aree tipicamente di “public works” non vi fu mai in seguito l’emigrazione che colpì le aree circostanti. Alla fine fu recuperato il 30% della superficie della pianura Padana dando agli abitanti di questa regione (con i soldi di tutti gli italiani) una base unica per lo sviluppo economico che sarebbe seguito.

Inutile cercare di spiegare queste cose ai know nothings della Lega che ragionano con un angolo visuale di pochi gradi. Tra leghisti e comunitari di ogni genere lo stato è stato evirato, proprio mentre i grandi “signori dei flussi” si impossessavano delle reti a grande scala. Al supposto paternalismo bonario dello stato sociale, si è sostituito il paternalismo autoritario della sussidiarietà rimediale. Forse in nessun campo come in quello ambientale e del governo degli spazi periurbani questo fenomeno appare in tutta la sua drammatica incapacità di produrre sostenibilità ambientale e sociale. L’indebolimento e la distruzione di tecnostrutture capaci di impedire i disastri, ha dato luogo alla creazione di macchine tendenzialmente verticistiche e autoritarie: piuttosto che cercare di prevenire ci si è abbandonati agli imperativi dell’emergenza: si noti lo scivolamento impercettibile, ma stravolgente, da “prevenzione”, che deve essere inevitabilmente realizzata con il concorso di tutti, a “protezione”, una attività che cala immancabilmente dall’alto, e che alla fine non “protegge” proprio nulla, salvo i grossi guadagni di chi controlla questi settori. “Cosa ci sta succedendo” chiede sgomento un quotidiano pure serio come La Stampa? Ma dove erano ai tempi del Polesine, di Firenze, del Friuli, di Genova 1970, Sarno e via via, tutti eventi rigorosamente autunnali?

 

Guido Martinotti

 



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