8 novembre 2011

cinema



UNA SEPARAZIONE

di Asghar Farhadi [Jodaeiye Nader az Simin, Iran, 2011, 123′]

con: Peyman Moaadi, Leila Hatami, Shahab Hosseini, Sareh Bayat, Sarina Farhadi, Babak Karimi, Ali-Asghar Shahbazi

 «Il mio problema è il futuro di mia figlia», ripete Simin (Leila Hatami) al giudice chiedendo il divorzio dal marito Nader (Peyman Moaadi). Simin e Nader si amano, ma il rapporto è in crisi: hanno ottenuto il permesso di lasciare l’Iran, ma Nader non vuole abbandonare il padre malato d’Alzheimer (Ali-Asghar Shahbazi). La donna, forse soltanto per scuoterlo un poco, va ad abitare dalla madre lasciando il marito con la figlia undicenne Termeh (Sarina Farhadi). Una separazione [Jodaeiye Nader az Simin, Iran, 2011, 123′], quindi, nel cui mezzo c’è Termeh. Ma in quella fessura aperta da Simin e Nader, oltre alla figlia, Asghar Farhadi butta anche Teheran, uno squarcio d’Iran, e noi.

La macchina da presa si posa delicata sui luoghi e sulle persone: sul velo indossato dalle donne, sull’insistente presenza della religione e di Dio in ogni situazione; contesti, dialoghi e parole che fanno assaggiare l’Iran senza permettere di darne sentenza. Il verdetto è complicato anche quando Razieh (Sareh Bayat) – badante in aiuto al padre di Nader – lascia il vecchio a casa solo e Nader, arrabbiato, la caccia bruscamente fuori di casa. Lei è incinta e, cadendo, perde il bambino. Davanti al giudice ci sono più dubbi che certezze: è scivolata da sola oppure è stato Nader a spingerla dalla scale? Di chi è la colpa?

È proprio a questo punto che la sceneggiatura di Farhadi sceglie di coinvolgerci. A quelle domande non c’è risposta: la costruzione dei personaggi non permette di prendere posizione. Non ci sono buoni e cattivi nel film di Farhadi, ma soltanto storie e – di conseguenza – interpretazioni. E le interpretazioni sono nostre, del pubblico in sala, siamo liberi di scegliere la nostra versione. L’occhio del cinema non impone una verità (cosa che, al contrario, avrebbe fatto la televisione) e ci trasporta – appunto – in quella “separazione” obbligandoci a partecipare alla costruzione del senso. Tra Nader e Simin, tra Razieh e Nader, tra l’Iran e l’Occidente, c’è il “non detto”, ciò che il cinema non dice esplicitamente. Quindi, ci siamo noi, coi nostri dubbi e pensieri.

Il piccolo schermo avrebbe decretato un vincitore e un vinto nel nome dello spettacolo, il documentario sarebbe scivolato sulla noia del dover di cronaca. Farhadi fa cinema. Poco importa la verità, poco importa la dittatura di un punto di vista. Racconta la sua storia quotidiana in modo semplice, seppur immersa in un contesto che semplice non è. Il regista ha la sua opinione sull’Iran di oggi, ma non la impone; Farhadi sa bene che «il mondo oggi ha più bisogno di domande che di risposte».

Paolo Schipani

 

In sala: Anteo SpazioCinema, Arlecchino, Multisala Capitol SpazioCinema

 

 

FOUR LIONS

di Chris Morris [Gran Bretagna, 2010, 94′]

con Riz Ahmed, Benedict Cumberbatch, Julia Davis, Alex MacQueen, Kayvan Novak.

Un ragazzo arabo tiene tra le mani un piccolo fucile giocattolo mentre registra un messaggio che appare un farsesco richiamo alla guerra santa. “Allora mi avvicino così si ingrandisce” è l’ingenua intuizione che scatena le proteste dei confratelli per l’evidente ridicolezza dell’immagine. È questo l’inizio di Four Lions, esordio cinematografico di Chris Morris, autore e presentatore televisivo inglese, maestro della satira che intrattiene e sbalordisce il pubblico con la sua audace commedia innovatrice.

Quattro ragazzi di una piccola città industriale britannica sognano di cambiare il mondo, vogliono segnare la propria epoca. Le loro gesta sono finalizzate al folle desiderio di essere ricordati e osannati per l’autodistruzione. Omar (Riz Ahmed), il leader del gruppo e personaggio centrale di Four Lions, ha un fanatismo che viene solo espresso senza mai essere spiegato né soprattutto spiegato. Le sue disavventure durante il periodo di addestramento in Pakistan ci mostrano l’ironia più potente sulla militanza terrorista.

La scelta di Chris Morris di adottare uno stile documentaristico esalta la spontaneità dei personaggi. La macchina da presa sembra gestita da uno dei quattro improvvisati terroristi. L’idea del regista di un film sulla jihad è nata prima degli attentati a Londra del luglio 2005 e se sia stato giusto perseverare con questo film esilarante ma su una tematica così delicata, dipende dal senso dell’umorismo di ciascun spettatore. Una cosa è certa, è davvero difficile non ridere di fronte a questo gruppo di sprovveduti che cercano ostinatamente di spargere terrore intorno a loro.

La fine del film nelle strade di Londra, durante la maratona, è un crescendo intenso di ridicolo. Un ridicolo che uccide.

Marco Santarpia

 

In sala a Milano: 11 novembre Cinema San Fedele di Via Hoepli

 

 

 

 

questa rubrica è cura di Paolo Schipani e Marco Santarpia

rubriche@arcipelagomilano.org

 



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