8 novembre 2011

arte


LE “GALLERIE D’ITALIA” NEL CUORE DI MILANO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Giulio Aristide Sartorio, Risveglio

Antonio Canova, Danza dei filgi di Alcinoo


Dopo il Museo del Novecento, apre a Milano, in centro che più centro non si può, un altro museo destinato a diventare una realtà importante del panorama artistico milanese. Hanno infatti debuttato in pompa magna le “Gallerie d’Italia”, museo-polo museale in piazza Scala, ospitato negli storici palazzi Anguissola e Brentani, restaurati per l’occasione. Un avvenimento cittadino, che ha avuto un’intera nottata di eventi e inaugurazioni dedicate.

Si è iniziato con “Risveglio”, videoproiezione sui palazzi di piazza Scala, a cura di Studio Azzurro, ispirate all’omonimo dipinto Risveglio (1908-23) di Giulio Aristide Sartorio (di proprietà della fondazione Cariplo), artista liberty e simbolista, esposto all’interno del museo. C’è stato poi un incontro con il filosofo Remo Bodei, con una riflessione sul bello e sul valore dei musei, per poi passare alle visite gratuite per il grande pubblico del Teatro alla Scala.

Una serata fitta d’impegni, che si è protratta fino all’una di notte, per permettere ai tanti visitatori in fila nonostante la pioggia battente, di visitare gratuitamente il nuovo museo. E in effetti valeva la pena di aspettare per vedere le tredici sezioni di questo museo che comprende, cronologicamente e per temi, tanti capolavori del nostro passato per approdare poi ai Futuristi. Un ideale partenza per visitare poi il vicino Museo del Novecento.

Un museo voluto e creato, nonostante i tempi poco propizi, da Intesa Sanpaolo e Fondazione Cariplo, da sempre attente all’arte e alla cultura, che grazie al progetto architettonico di Michele de Lucchi, ospita 197 opere dell’Ottocento italiano, in particolare lombardo, delle quali 135 appartenenti alla collezione d’arte della Fondazione Cariplo e 62 a quella di Intesa Sanpaolo. Il percorso espositivo di 2.900 mq, curato da Fernando Mazzocca, propone un itinerario alla scoperta di una Milano ottocentesca, assoluta protagonista del Romanticismo e dell’industrializzazione, ma anche di altre scuole artistiche e correnti.

Aprono il percorso i tredici bassorilievi in gesso di Antonio Canova, che già di per sé varrebbero la visita, ispirati a Omero, Virgilio e Platone; si passa poi ad Hayez e alla pittura romantica, con il suo capolavoro “I due Foscari“; largo spazio è stato dedicato a Giovanni Migliara e Giuseppe Molteni, per passare a Gerolamo Induno; alla sezione dedicata al Duomo di Milano e alle sue vedute prospettiche e quella dedicata ai Navigli. Se a palazzo Anguissola tutto era un trionfo di stucchi, specchi e puttini, l’ambientazione cambia quando si passa al contiguo palazzo Brentani, con la pittura di genere settecentesca, i macchiaioli, con Segantini e Boldini, i divisionisti, il Simbolismo di Angelo Morbelli e Previati, per arrivare all’inizio del ‘900 con quattro dipinti di Boccioni, ospitati in un ambiente altrettanto caratteristico ma più neutro e museale.

Al centro, nel cortile ottagonale, troneggia un disco scultura di Arnaldo Pomodoro. Ma non è finita qui. Al settecentesco Palazzo Anguissola e all’adiacente Palazzo Brentani, si affiancherà nella primavera del 2012 la storica sede della Banca Commerciale Italiana, che ospiterà la nuova sezione delle Gallerie e vedrà esposta una selezione di opere del Novecento.

Insomma un progetto importante che, in un momento di crisi e preoccupazione globale, vuole investire e rilanciare arte, cultura e il centro città, facendo di piazza della Scala un irrinunciabile punto di riferimento, un “salotto cittadino” adatto ai turisti, ma, si spera, non solo.

Gallerie d’Italia – piazza della Scala – entrata libera fino all’apertura della sezione novecentesca del Museo, prevista nella primavera 2012 – Orari: Da martedì a domenica dalle 9.30 alle 19.30. Giovedì dalle 9.30 alle 22.30. Lunedì chiuso

 

L’ARTE POVERA INVADE L’ITALIA

Sono numeri da capogiro quelli legati alla mostra “Arte Povera”, esposizione organizzata da Triennale Milano e dal Castello di Rivoli, a cura di Germano Celant, che vuole celebrare coralmente questo movimento italiano con una serie di iniziative sparse per il Bel Paese. Sette le città coinvolte, otto i musei ospitanti, 250 le opere esposte, 15 mila i metri quadrati, tra architetture museali e contesti urbani, usati per contenere ed esporre le spesso monumentali opere d’arte.

L’operazione ha dell’eccezionale, mettendo insieme direttori, esperti, studiosi e musei, che si sono trovati d’accordo nel creare e ospitare una rassegna che testimoni la storia del movimento nato nel 1967 grazie agli artisti Alighiero Boetti, Mario e Marisa Merz, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto, Jannis Kounellis, Giulio Paolini e tanti altri.

Un movimento che deve la sua definizione proprio al curatore e al creatore di questa impresa, Germano Celant, che usò il termine per la prima volta in occasione di una mostra genovese di quel anno, volendo definire una tendenza molto libera, in cui gli artisti lasciavano esprimere i materiali e le materie (acqua, fuoco, tele, pietre ecc.), non controllati esteticamente o plasticamente, ma anzi usati per esprimere energie e mutamenti interni ad essi.

Così ecco lanciata la sfida, raccontare la storia di questo movimento, prontamente raccolta da alcune delle istituzioni museali più importanti d’Italia: Triennale Milano e il Castelli di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, veri promotori, la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, la GAMeC di Bergamo, il MADRE di Napoli, il MAMbo di Bologna, il MAXXI di Roma e il Teatro Margherita di Bari.

Ogni sede ospita un “pezzo di storia” del movimento, che in una visione d’insieme, permetteranno al visitatore-pellegrino di ricomporre e afferrare ogni aspetto dell’arte dagli anni ’60 ad oggi.

In particolare presso la Triennale, sede cardine dell’evento, si potrà avere una bella visione d’insieme grazie ad “Arte Povera 2011”, rassegna antologica sul movimento, che in uno spazio di circa 3000 metri quadrati, raccoglie oltre 60 opere, per testimoniare l’evoluzione del percorso artistico fino al 2011, grazie alla collaborazione di musei, artisti, archivi privati e fondazioni.

La prima parte si sviluppa al piano terra, ed è dedicata alle opere storiche degli artisti, realizzate tra 1967 e 1975, e che ne segnano in qualche modo il loro esordio nel mondo dell’arte: i cumuli di pietra e tele di Kounellis; gli intrecci al neon di Mario Mez; gli immancabili specchi di Pistoletto; i fragili fili di nylon e le foglie secche nelle opere di Marisa Merz; le scritte in piombo e ghiaccio di Pier Paolo Calzolari; e tanti altri.

Al secondo piano, nei grandi spazi aperti, in un percorso fluido e spazioso, sono documentate le opere realizzate dagli artisti tra 1975 e 2011, in un continuo e contemporaneo dialogo tra loro.

Nei 150 anni dell’Unità d’Italia, una grande operazione museale ed espositiva che riunisce artisti, musei e grandi nomi, in un’operazione nazionale che rende giustizia, e ne tira idealmente le somme, di un movimento, italianissimo, e tuttora vivente.

Arte Povera 1967 – 2011-fino al 29 gennaio – Triennale di Milano – Ingresso 8,00/6,50/5,50 – Orari:martedì-domenica 10.30-20.30, giovedì e venerdì 10.30-23.00

Le altre sedi:

*24 settembre – 26 dicembre 2011, MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna, Bologna “Arte Povera 1968

*7 ottobre 2011 – 8 gennaio 2012, MAXXI – Museo nazionale delle arti del XXI secolo, Roma “Omaggio all’Arte Povera

*9 ottobre 2011 – 19 febbraio 2012 Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli “Arte Povera International

*25 ottobre 2011 – 29 gennaio 2012, Triennale di Milano, Milano “Arte Povera 1967-2011

*novembre 2011 – aprile 2012, GAMeC Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo “Arte Povera in città

*11 novembre 2011 – aprile 2012, MADRE – Museo d’Arte contemporanea Donnaregina, Napoli “Arte Povera più Azioni Povere 1968

*7 dicembre 2011 – 4 marzo 2012, Galleria nazionale d’arte moderna, Roma “Arte Povera alla GNAM

*15 dicembre 2011 – 11 marzo 2012, Teatro Margherita, Bari “Arte Povera in teatro

 

 

CEZANNE E LES ATELIERS DU MIDI

Palazzo Reale presenta, per la prima volta a Milano, un protagonista indiscusso dell’arte pittorica, colui che traghetterà simbolicamente la pittura dall’Impressionismo al Cubismo; colui che fu maestro e ispiratore per generazioni di artisti: va in scena Paul Cezanne. Sono una quarantina i dipinti esposti, con un taglio inedito e particolare, dovuto a vicende alterne che hanno accompagnato fin dall’origine la nascita di questa grande esposizione, intitolata “Cézanne e les atéliers du midi“.

E’ appunto da questo titolo che tutto prende forma. L’espressione “ateliers du midi” fu coniata da Vincent Van Gogh, il cui progetto ero quello di creare una comunità di artisti riuniti in Provenza, una sorta di novella bottega, in cui tutti avrebbero lavorato in armonia. Un progetto che, come è noto, non portò mai a termine, ma dal quale Rudy Chiappini e Denis Coutagne, curatori della mostra, hanno preso spunto per delineare il percorso artistico di Cezanne.

La mostra è un omaggio al grande e tenace pittore solitario, nato ad Aix-en-Provence, luogo al quale fu sempre attaccato, e che nei suoi continui spostamenti tra il paese natio, Parigi e l’Estaque, creò quella che da sempre è stata considerata la base dell’arte moderna.

Il tema portante dell’esibizione riguarda l’attività di Cezanne in Provenza, legata indissolubilmente ai suoi ateliers: prima di tutti il Jas de Bouffan, la casa di famiglia in cui Cezanne compie le sue prime opere e prove giovanili; la soffitta dell’appartamento di Rue Boulegon; il capanno vicino alle cave di Bibémus; i locali affittati a Château Noir; la piccola casa a l’Estaque, e infine il suo ultimo atelier, il più perfetto forse, costruito secondo le indicazioni del pittore stesso, l’atelier delle Lauves.

Luoghi carichi di significato e memoria, in cui il maestro si divise, nelle fasi della sua vita, tra attività en plein air, seguendo i consigli degli amici Impressionisti, e opere “sur le motiv”, una modalità cara a Cezanne, che della ripetizione ossessiva di certi soggetti ne ha fatto un marchio di fabbrica. Opere realizzate e rielaborate all’interno dello studio, luogo di creazione per ritratti, nature morte, composizioni e paesaggi. Ma l’atelier è anche il luogo della riflessione per Cezanne, artista tormentato e quasi ossessivo nel suo desiderio di dare ordine al caos, cercando equilibrio e rigore, usando soprattutto, secondo una sua celebre frase, il cilindro, la sfera e il cono. “In natura tutto è modellato secondo tre modalità fondamentali: la sfera, il cono e il cilindro. Bisogna imparare a dipingere queste semplicissime figure, poi si potrà fare tutto ciò che si vuole“.

Una mostra che vanta prestiti importanti (quale un dipinto dall’Hermitage); che coinvolge un’istituzione importante come il Museo d’Orsay, e che ha nel suo comitato scientifico proprio il direttore del museo e il pronipote dell’artista, Philippe Cezanne. Con un allestimento semplice ma accattivante, merito anche dei grandi spazi, il visitatore potrà scoprire i primi e poco noti lavori del maestro francese, le opere murali realizzate per la casa paterna e i primi dipinti e disegni ispirati agli artisti amati, come Roubens, Delacroix e Courbet.

Dal 1870 Cezanne trascorrerà sempre più tempo tra Parigi, in compagnia dell’amico di scuola Emile Zola, e la Provenza. Nascono quindi inediti soggetti narrativi, usando lo stile en plein air suggeritogli da Pissarro. Si schiariscono i colori e le forme sono più morbide: ecco le Bagnanti, ritratte davanti all’amata montagna-feticcio Sainte Victorie.

Stabilitosi quasi definitivamente in Provenza, eccolo licenziare alcuni dei suoi paesaggi più straordinari, con pini, boschi e angoli nascosti, tra cui spiccano quelli riguardanti le cave di marmo di Bibemus, luogo amato e allo stesso tempo temuto da Cezanne, che vedeva nella natura il soggetto supremo, il principio dell’ordine, ma che al tempo stesso poteva essere anche nemica e minaccia.

Capolavori della sua arte sono anche i ritratti, dipinti in maniera particolare e insolita. Sono ritratti di amici e paesani, di gente comune che Cezanne fissa su tela senza giudicare né esprimere pareri, figure immobili ed eterne, come le sue nature morte. E sono proprio queste le composizioni più mature, tra cui spicca per bellezza “Il tavolo di cucina – Natura morta con cesta“, (1888-1890), dalle prospettive e dai piani impossibili, con una visione lontanissima dalla realtà e dal realismo imitativo, con oggetti ispirati sì da oggetti reali, tra cui le famosissime mele, ma reinventati in chiave personale.

Una mostra dunque densa di spunti per comprendere l’opera del pittore di Aix, complementare alla mostra del Musée du Luxembourg di Parigi, intitolata “Cezanne et Paris“, che indagherà invece gli anni parigini e approfondirà il rapporto tra Cezanne, gli Impressionisti e i post Impressionisti.

Cézanne e les atéliers du midi. Fino al 26 febbraio, Palazzo Reale. Orari: 9.30-19.30; lun. 14.30-19.30; gio. sab. 9.30-22.30. Costi: intero euro 9, ridotto euro 7,50.

 

 

ROBERTO CIACCIO. REVENANCE TRA SPECCHI E CARIATIDI

Il luogo è di per sé uno tra i più incantevoli di Milano, la sala delle Cariatidi, cuore di Palazzo Reale. Un ambiente carico di storia e suggestioni, che con la sua atemporalità sospesa e silenziosa è ben adatto a ospitare i lavori di Roberto Ciaccio, artista che tende a creare l’opera d’arte “totale”, unione di pittura, scultura, architettura e musica. Sono lavori site specific, pensati in stretta identità con la sala ospitante, e che diventano il terzo momento di un percorso espositivo che porta l’opera di Ciaccio a confrontarsi con la filosofia, la poesia e la musica, così come era già avvenuto a Berlino e Roma.

Inter/vallum” è il titolo della mostra, curata niente meno che da Remo Bodei, Kurt W. Forster e Arturo Schwarz (tre giganti della filosofia, dell’architettura e della critica d’arte); grandi lastre incolori fatte di metalli diversi – ferro, rame, ottone, zinco –, realizzate con un procedimento tecnico a rulli di stampa, con tonalità dal blu al viola; ma ci sono anche grandi opere su carta, la serie dei piccoli fogli di papier japon, che aprono illusori spazi tridimensionali al proprio interno attraverso molteplici stratificazioni di piani e valori cromatici.

Sono appunto intervalli, come spiega il titolo, che scandiscono in modo seriale spazi reali e illusori, che diventano soglie, aperture e specchi che interagiscono e si completano in un percorso illusionistico, onirico e musicale. E la musica ha una grossa rilevanza nei lavori di Ciaccio, tanto che nel centro della sala troneggia un grande pianoforte a coda, usato il giorno dell’inaugurazione per una straordinaria performance: l’esecuzione di Mantra per due pianoforti, radio a onde corte, modulatori ad anello, woodblocks e cembali antichi di Karlheinz Stockhausen, eseguito dal duo pianistico Antonio Ballista e Bruno Canino, con Walter Prati e Massimiliano Mariani agli strumenti elettronici, che ripeteranno il concerto già eseguito a Milano – con la regia dello stesso Stockhausen – oltre trentacinque anni fa.

Uno spazio scelto, la Sala delle Cariatidi, perché carico di energia, spiega Ciaccio, che ben si sposa con le opere dal carattere misterioso ed esoterico delle lastre metalliche, veri revenance (spettri) dai colori immateriali ma energici, fatti di bagliori metallici e vibrazioni di luce, che sembrano riflettere all’infinito le note suonate dal pianoforte.

Artista da sempre concettuale e astratto, in continuo dialogo con la filosofia, Ciaccio accarezza temi come la luce, l’assenza, le tracce, la temporalità e il tempo, concentrandosi proprio su quest’ultimo, per creare i suoi revenance – il ritorno fantasmatico dell’immagine -, opere concrete ma allo stesso tempo evanescenti, possibili vie per indicare nuovi percorsi e modi di indagine per l’arte e le infinite varianti di un’immagine. Sicuramente di grande suggestione e impatto visivo, un’occasione per vivere un luogo storico che mischia passato, presente ed eterno ritorno.

Roberto Ciaccio- Inter/vallum Sala delle Cariatidi, Palazzo Reale, fino al 20 novembre Orari: Lunedì 14.30 – 19.30. Martedì, mercoledì, venerdì, domenica 9.30 – 19.30. Giovedì e sabato 9.30 – 22.30 Ingresso gratuito

 

 

I VISCONTI E GLI SFORZA RACCONTATI ATTRAVERSO I LORO TESORI

In occasione del suo primo decennale, il Museo Diocesano ospita, fino al 29 gennaio, una mostra di capolavori preziosi e di inestimabile valore, intitolata “L’oro dai visconti agli Sforza”. Una mostra creata per esplorare, per la prima volta in Italia, l’evoluzione dell’arte orafa a Milano tra il XIV e il XV secolo, attraverso sessanta preziose opere tra smalti, miniature, arti suntuarie, oggetti di soggetto sacro e profano, provenienti da alcuni tra i musei più prestigiosi del mondo.

I Visconti e gli Sforza sono state due tra le famiglie più potenti e significative per la storia di Milano. Con la loro committenza hanno reso la città una tra le più attive d’Europa artisticamente e culturalmente. Una città che ha ospitato maestranze e botteghe provenienti da tutta Europa, che qui si sono trasferite per soddisfare le esigenze di una corte sempre più ricca e lussuosa, che chiedeva costantemente oggetti preziosi e raffinati per auto celebrarsi e rappresentarsi.

Oltretutto non va dimenticato che a Milano e dintorni due erano i cantieri principali che attiravano artisti di vario tipo: il Duomo, iniziato nel 1386 su commissione viscontea, e il castello di Pavia, iniziato nel 1360 per volere di Galeazzo Visconti.

Due in particolare sono le figure a cui ruotano intorno le vicende milanesi del periodo, uomini forti che costruirono le fortune delle loro famiglie e che furono anche committenti straordinari: Gian Galeazzo Visconti e Ludovico il Moro. Gian Galeazzo fu il primo dei Visconti a essere investito del titolo ducale, comprato dall’imperatore di Boemia nel 1395, titolo che legittimò una signoria di fatto che risaliva al 1200. L’altra figura di rilievo fu Ludovico il Moro, figlio del capitano di ventura Francesco Sforza, che sposa la figlia dell’ultimo Visconti, dando inizio così alla dinastia sforzesca. Ludovico il Moro, marito di Beatrice d’Este, fu uomo politico intraprendente ma soprattutto committente colto e attivo, che chiamò presso la sua corte uomini d’ingegno come Leonardo Da Vinci, Bramante e molti altri tra gli artisti più aggiornati del panorama europeo.

La mostra prende inizio da due inventari, quello dei gioielli portati in dote da Valentina Visconti, figlia di Gian Galeazzo, andata in sposa a Luigi di Turenna, fratello del re di Francia; e quello dei preziosi di Bianca Maria Sforza, figlia di Ludovico il Moro, andata in sposa all’imperatore Massimiliano I. Proprio questi elenchi hanno permesso di ricostruire l’entità del tesoro visconteo-sforzesco, e di ricostruire e di riunire insieme i principali oggetti per questa mostra.

Il percorso si snoda tra pezzi di pregiata fattura, come gli scudetti di Bernabò Visconti, zio di Gian Galeazzo, che ci mostrano una delicata tecnica a smalto traslucido; oppure la preziosa minitura con una dama, opera di Michelino da Besozzo, forse il più importante miniatore del secolo, che con tratti fini e delicati ci mostra una dama vestita alla moda dell’epoca, con maniche lunghe e frappate e il tipico copricapo “a balzo”, espressione modaiola delle corti lombarde. Lavoro da mettere a confronto con il fermaglio di Essen (opera in dirittura di arrivo), pezzo d’oreficeria finissima, una micro scultura rappresentante la stessa enigmatica dama.

Altro pregevole pezzo è sicuramente il medaglione con la Trinità, recante il “nuvoloso” visconteo, emblema della famiglia, dipinto in smalto “ronde bosse”, tecnica tra le più raffinate e costose. Proprio gli smalti sono una delle tecniche più rappresentative dell’oreficeria visconteo-sforzesca, con un ventaglio di tipologie vario e virtuosistico, attraverso cui le botteghe milanesi erano conosciute in tutta Europa. Ma d’altra parte Milano aveva una lunga tradizione smaltista alle spalle, basti pensare all’altare di Vuolvino, nella basilica di sant’Ambrogio.

Uno dei passatempi preferiti della corte erano le carte: ecco dunque sei bellissimi esemplari di Tarocchi, provenienti da Brera, interamente coperti di foglia d’oro, punzonati e dipinti, testimonianza unica e ben conservata della moda, dei costumi e delle tecniche dell’epoca. Dalla dinastia viscontea si passa poi a quella sforzesca, con reliquari e tabernacoli che si ispirano al duomo di Milano per struttura e composizione, opere di micro architettura in argento e dipinte in smalto a pittura, come il Tabernacolo di Voghera o quello Pallavicino di Lodi.

Ma è la miniatura a farla da padrone, con il messale Arcimboldi, che mostra Ludovico il Moro, novello duca di Milano circondato dal suo tesoro; il Libro d’Ore Borromeo, famiglia legata a doppio filo a quella dei duchi di Milano; e il Canzoniere per Beatrice d’Este, opera del poeta Gasparo Visconti, con legatura smaltata che ripropone fiammelle ardenti e un “groppo” amoroso, il nodo che tiene uniti i due amanti, raffigurazione illustrata di un sonetto del canzoniere.

Anche Leonardo gioca la sua parte, indirettamente, in questa mostra. Il maestro si occupò infatti anche di smalti, perle, borsette e cinture, che alcuni suoi allievi seguirono nelle indicazioni, come ci mostrano l’anconetta con la Vergine delle rocce del museo Correr o la “Pace” proveniente da Lodi. Insomma un panorama vario e ricco che mostra tutto il lusso e la raffinatezza di una delle corti più potenti d’Europa.

Oro dai Visconti agli Sforza. Fino al 29 gennaio – Museo Diocesano. Corso di Porta Ticinese 95. Orari: tutti i giorni ore 10-18, chiuso lunedì. Costo: 8 € intero, 5 € ridotto, martedì 4 €.

 

 

ARTEMISIA GENTILESCHI. VITA, AMORI E OPERE DI UNA PRIMADONNA DEL ‘600

Artemisia Lomi Gentileschi è stata una delle numerose donne pittrici dell’arte moderna, ma la sola, forse, ad aver ricevuto successo, notorietà, fama e commissioni importanti in quantità. Ecco perché la mostra “Artemisia Gentileschi -Storia di una passione”, ospitata a Palazzo Reale e da poco aperta, si propone di ristudiare, approfondire e far conoscere al grande pubblico la “pittora” e le sue opere, per cercare di slegarla all’episodio celeberrimo di violenza di cui fu vittima. Sì perché il nome di Artemisia è spesso associato a quello stupro da lei subito, appena diciottenne, da parte del collega e amico del padre, Agostino Tassi, che la violentò per nove mesi, promettendole in cambio un matrimonio riparatore.

Donna coraggiosa, che ebbe il coraggio di ribellarsi e denunciare il Tassi, subendone in cambio un lungo e umiliante processo pubblico, il primo di tal genere di cui ci siano rimasti gli atti scritti. La mostra, quasi una monografica, si propone anche di dare una individualità tutta sua alla giovane pittrice, senza trascurare però gli esordi con il padre, l’ingombrante e severo Orazio Gentileschi, amico di Caravaggio e iniziatore della figlia verso quel gusto caravaggesco che tanto fu di moda; o senza tralasciare lo zio, fratello di Orazio, Aurelio Lomi, pittore manierista che tanto fece per la nipote.

Il percorso si snoda dunque dalla giovanile formazione nella bottega paterna, per una donna pittrice ai tempi non poteva essere altrimenti, per arrivare alle prime opere totalmente autonome e magnifiche, dipinte per il signore di Firenze Cosimo II de’ Medici. La vita di Artemisia fu rocambolesca e passionale. Dopo il processo a Roma si spostò a Firenze con il neo marito Pietro Stiattesi, e fu lì che conobbe i primi successi – fu la prima donna a essere ammessa all’Accademia del Disegno di Firenze- e un grande, vero amore, Francesco Maria Maringhi, nobile fiorentino con cui avrà una relazione che durerà per tutta la loro vita. Dati, questi, che si sono recuperati solo in tempi recentissimi grazie a uno straordinario carteggio autografo di Artemisia, del marito e dell’amante. E proprio le lettere sono state un punto di partenza importante per nuove attribuzioni, scoperte e ipotesi su dipinti prima nel limbo delle incertezze.

In mostra ci sono quasi tutte le opere più famose di Artemisia (peccato per un paio di prestiti importanti che non sono arrivati): le due cruente e violentissime Giuditte che decapitano Oloferne, da Napoli e dagli Uffizi, lette così spesso in chiave autobiografica (Artemisia-Giuditta che decapita in un tripudio di sangue Oloferne/Agostino Tassi); le sensuali Maddalene penitenti; eroine bibliche come Ester, Giaele, Betsabea e Susanna; miti senza tempo come Cleopatra e Danae, varie Allegorie e Vergini con Bambino. Ma Artemisia fu famosa anche per i suoi ritratti, di cui pochi esempi ci sono rimasti, come il “Ritratto di gonfaloniere” o il “Ritratto di Antoine de Ville”, così come per i suoi autoritratti. Le fonti ce la raccontano come donna bellissima e sensuale, pienamente consapevole del suo fascino e del suo ruolo, che amava dipingersi allo specchio e regalare queste opere ai suoi ammiratori.

Così la mostra si snoda tra Firenze, da cui i coniugi Stiattesi scappano coperti dai debiti, per arrivare a Roma, Venezia, Napoli e perfino in Inghilterra, dove la volle il re Carlo I. Una vita ricca di passioni, appunto, come l’amore per la figlia Palmira, che diverrà anch’essa pittrice e valido aiuto nella bottega materna che Artemisia aprirà a Napoli fin dagli anni Trenta del Seicento, ricca di giovani promettenti pittori come Bernardo Cavallino. Una vita ricca anche di conoscenze e amicizie importanti: ventennale il rapporto epistolare con Galileo Galilei, conosciuto a Firenze, con Michelangelo il Giovane, pronipote del genio fiorentino, e anche con una serie di nobili e committenti per cui dipinse le sue opere più celebri: Antonio Ruffo, Cassiano dal Pozzo, i cardinali Barberini e l’arcivescovo di Pozzuoli, per il quale fece tre enormi tele per adornare la nuova cattedrale nel 1637, la sua prima vera commissione pubblica.

Insomma una donna, una madre e un’artista straordinaria, finalmente messa in luce in tutta la sua grandezza, inquadrata certo nell’alveo del padre Orazio e di quel caravaggismo che la resa tanto famosa, ma vista anche come pittrice camaleontica e dall’inventiva straordinaria, capace di riproporre uno stesso soggetto con mille varianti, secondo quella varietas e originalità per cui fu, giustamente, così ricercata.

Artemisia Gentileschi. Storia di una passione– Fino al 29 gennaio Palazzo Reale. Orari: 9.30-19.30; lun. 14.30-19.30; gio. e sab. 9.30-22.30. Intero: € 9,00. Ridotto: € 7,50

 

CATTELAN TRA PICCIONI IMBALSAMATI E FOTO SURREALISTE

Nuovo scandalo (preannunciato) per l’enfant prodige dell’arte nostrana, Maurizio Cattelan. Alla 54esima Biennale di Venezia, inaugurata il 4 giugno e che andrà avanti fino al 27 novembre, l’artista padovano, chiamato in extremis a partecipare, ha proposto una particolarissima opera-installazione: The others, 2000 piccioni imbalsamati e collocati sui solai, le travi e gli impianti del Padiglione centrale della Biennale. In realtà l’idea tanto nuova non è visto che riprende un’installazione del 1997, Tourists, già esposta nella Biennale di quell’anno, curata da Germano Celant, e che consisteva in duecento colombi imbalsamati. Alcuni dei quali, è bene dirlo, sono stati poi battuti all’asta da Christie’s per l’incredibile somma di 150 mila sterline.

Insomma altri piccioni tassidermizzati appollaiati su travi. Questo ha comportato una inevitabile protesta da parte degli animalisti, che hanno manifestato con slogan e cartelli all’ingresso dei Giardini. Certo Cattelan non è nuovo all’uso di animali nelle sue opere, come fece nel 1996 per La ballata di Trotskij, in cui appese un cavallo imbalsamato a uno dei soffitti del Castello di Rivoli (stima: due milioni di dollari), oppure un altro cavallo, sempre imbalsamato, trafitto da un cartello con la scritta INRI, esposto nel 2009 alla Tate Modern di Londra; la “statua animale” dei quattro musicanti di Brema, o ancora l’irriverente regalo alla Facoltà di Sociologia dell’Università di Trento in occasione del conferimento della laurea honoris causa: un asino impagliato dal titolo Un asino tra i dottori. Ultimo ma non meno crudele, il topolino incastrato in una bottiglia di vodka Absolut per uno degli eventi legati alla Biennale del 2003 organizzato proprio dal marchio Absolut.

Magra consolazione far notare che i piccioni non sono stati imbalsamati appositamente per l’evento e che, in realtà, nel 2007, per la giornata dell’arte contemporanea promossa da Amaci (Associazione dei musei d’arte contemporanea italiani) Cattelan aveva realizzato un canguro nascosto dietro un albero dal quale spuntavano solo le orecchie dell’animale, un lavoro eseguito con il sostegno del Wwf stesso.

“Quattrocento di questi piccioni andranno poi alla mia retrospettiva al Guggenheim di New York che aprirà il 4 novembre. Confermo che quello sarà il mio ultimo impegno prima di lasciare il mondo dell’arte”. Così si giustifica Cattelan, sostenendo ancora una volta che il suo ritiro dal mondo dell’arte è davvero imminente. Verità o strategia? Sarebbe in ogni caso un ritiro parziale, perché l’obiettivo di Cattelan è occuparsi sempre di arte, ma in modo collaterale, attraverso la sua nuova rivista Toilet Paper. “Come annunciato mi ritiro a occuparmi della mia rivista Toilet Paper, anzi ne farò anche altre”. Per l’appunto. Questa nuova impresa editoriale, diretta e curata insieme all’amico e fotografo Pierpaolo Ferrari, presentato nello spazio milanese “Le Dictateur“, è una rivista fotografica, una sorta di moderno giornale dada-surrealista (abbondano occhi, nasi e dita mozzate), dedicata solo alle immagini, niente spiegazioni, che accosta fotografie diverse e un tantino scioccanti, per permettere allo spettatore pindarici voli interpretativi e suggestivi. L’importante, suggeriscono gli autori, è la sequenza con cui le foto sono proposte. Insomma il solito, irriverente e autoreferenziale Cattelan.

54. Esposizione Internazionale d’arte Biennale di Venezia, Giardini e Arsenale
dal 4 giugno al 27 novembre, Orari: 10 18 chiuso il lunedì. Costi: 6 € per ciascuna sede, 10 € per entrambe le sedi

 

 

DOPPIO KAPOOR A MILANO

Sono tre gli appuntamenti che l’Italia dedica quest’anno ad Anish Kapoor, artista concettuale anglo-indiano. Due di questi sono a Milano, e si preannunciano già essere le mostre più visitate dell’estate. Il primo è alla Rotonda della Besana, dove sono esposte sette opere a creare una mini antologica; il secondo è “Dirty Corner“, installazione site-specific creata apposta per la Fabbrica del Vapore di via Procaccini. Entrambe curate da Demetrio Paparoni e Gianni Mercurio, con la collaborazione di MADEINART, gli stessi nomi che hanno curato anche la retrospettiva di Oursler al Pac.

Una mostra di grande impatto visivo, quella della Besana, con opere fatte di metallo e cera, realizzate negli ultimi dieci anni e che sono presentate in Italia per la prima volta. Opere di grande impatto sì, ma dal significato non subito comprensibile. Kapoor è un artista che si muove attraverso lo spazio e la materia, in una continua sperimentazione e compenetrazione tra i due, interagendo con l’ambiente circostante per “cercare di generare sensazioni, spaesamenti percettivi, che porteranno a ognuno, diversi, magari insospettabili significati”, come spiega l’artista stesso. Ecco perché non tutto è lineare, come si può capire guardando le sculture in acciaio “C-Curve” (2007), “Non Object (Door)” 2008, “Non Object (Plane)” del 2010, ed altre che provocano nello spettatore una percezione alterata dello spazio. Figure capovolte, deformate, modificate a seconda della prospettiva da cui si guarda, un forte senso di straniamento che porta quasi a perdere l’equilibrio. Queste solo alcune delle sensazioni che lo spettatore, a seconda dell’età e della sensibilità, potrebbe provare davanti a questi enormi specchi metallici.

Ma non c’è solo il metallo tra i materiali di Kapoor. Al centro della Rotonda troneggia l’enorme “My Red Homeland“, 2003, monumentale installazione formata da cera rossa (il famoso rosso Kapoor), disposta in un immenso contenitore circolare e composta da un braccio metallico connesso a un motore idraulico che gira sopra un asse centrale, spingendo e schiacciando la cera, in un lentissimo e silenzioso scambio tra creazione e distruzione. Un’opera, come spiegano i curatori, che non potrebbe esistere senza la presenza indissolubile della cera e del braccio metallico, in una sorta di positivo e negativo (il braccio che buca la cera), e di cui la mente dello spettatore è comunque in grado di ricostruirne la totalità originaria.

Il lavoro di Kapoor parte sempre da una spiritualità tutta indiana che si caratterizza per una tensione mistica verso la leggerezza e il vuoto, verso l’immaterialità, intesi come luoghi primari della creazione. Ecco perché gli altri due interessanti appuntamenti hanno sempre a che fare con queste tematiche: “Dirty Corner“, presso la Fabbrica del Vapore, un immenso tunnel in acciaio di 60 metri e alto 8, all’interno dei quali i visitatori potranno entrare, e “Ascension”, esposta nella Basilica di San Giorgio Maggiore a Venezia, in occasione della 54° Biennale di Venezia. Opera già proposta in Brasile e a Pechino ma che per l’occasione prende nuovo significato. Un’installazione site-specific che materializza una colonna di fumo da una base circolare posta in corrispondenza dell’incrocio fra transetto e navata della maestosa Basilica e che sale fino alla cupola.

ANISH KAPOOR – Fabbrica del Vapore, via Procaccini 4 – fino all’12 gennaio 2012 Orari: lun 14.30 – 19.30. Mar-dom 9.30-19.30. Giov e sab 9.30-22.30. Costi: 6 € per ciascuna sede, 10 € per entrambe le sedi.

 

 

 

 

questa rubrica è a cura di Virginia Colombo

rubriche@arcipelagomilano.org


 



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