25 ottobre 2011

cinema



 

BAR SPORT

di Massimo Martelli [Italia, 2011, 93′]

con Claudio Bisio, Giuseppe Battiston, Antonio Catania, Angela Finocchiaro, Teo Teocoli, Antonio Cornacchione, Lunetta Savino

Ho letto Bar Sport di Stefano Benni alla fine della quarta ginnasio, quattordici anni fa. Mi ricordo con precisione il periodo perché il libro accompagnava i lunghi viaggi in autobus nei quali, per la prima volta da giovane lettore, non riuscivo a contenere le solitarie risate scaturite dalla rivoluzionaria e irresistibile scrittura comica dell’autore bolognese.

Qualche settimana fa, appresa la notizia dell’imminente adattamento cinematografico, ho deciso di recuperare dalla libreria il piccolo volume per un’analisi più matura. Il risultato non è cambiato. È cambiato l’autobus che ora mi porta al lavoro ma, se l’autista fantasticamente fosse lo stesso, potrebbe testimoniare il riproporsi naturale delle mie risa. Le invenzioni di Benni sono eterne, come i problemi di illuminazione dell’insegna Bar Sport.

Così sabato, quando mi sono seduto di fronte allo schermo del cinema Colosseo in attesa di Bar Sport il film, avevo con me una buona dose di curiosità e un timido entusiasmo. Il risultato è stato quanto mai deludente. Sembra un’iperbole alla Benni ma è tristemente vero che i novanta minuti della pellicola non sono riusciti a strapparmi una risata. Per una disamina il più possibile completa e oggettiva, ho notato malinconicamente che condividevo l’apatica reazione alla pellicola con la totalità degli spettatori in sala.

Il regista, Massimo Martelli, e gli sceneggiatori hanno il merito di essere rimasti ossequiosamente fedeli al testo di Benni, rivelando pubblicamente di considerarlo come una Bibbia della comicità. Non mancano quindi gli interventi saccenti e inopportuni del tennico (Claudio Bisio), i racconti mirabolanti e fantasiosi del playboy (Teo Teocoli), il tuttofare Bovinelli (Antonio Cornacchione).

Cosa si è perso quindi nel passaggio alla settima arte? Si è perso il tocco di magia del Bar Sport, luogo solo apparentemente reale, ma in verità teatro fiabesco, fabbrica surreale e inesauribile di sogni e gesta leggendarie. La pellicola non può che risultare come la mitica Luisona, indigesta.

Marco Santarpia

 

In sala a Milano: Colosseo, Plinius, The Space Cinema Odeon, UCI Cinemas Bicocca, UCI Cinemas Certosa

 

 

MELANCHOLIA

di Lars von Trier [Danimarca/Svezia/Francia/Germania, 2011, 136′]

con: Kristen Dunst, Charlotte Gainsbourg, Kiefer Sutherland, Charlotte Rampling, John Hurt, Cameron Spurr

«Melancholia passerà sopra di noi, è un passaggio ravvicinato», dice guardando il cielo il piccolo Leo (Cameron Spurr). Il bimbo parla del pianeta Melancholia: in caduta libera lungo la traiettoria della Terra. La fine del mondo è alle porte, pare, causata da un probabile schianto interplanetario. Ma questa è la seconda “storia” raccontata da Lars von Trier nel suo film Melancholia [Danimarca/Svezia/Francia/Germania, 2011, 136′], appunto. Prima, c’è un’altra “storia” nella sceneggiatura del regista danese; Justine (Kristen Dunst), appena sposata, celebra le nozze nella sfarzosa villa del cognato John (Kiefer Sutherland). Bisogna attendere poco per notare uno dei punti fermi di von Trier: la malignità famigliare. L’odio è pungente nella famiglia di Justine e – non bastasse – lei è evidentemente depressa. Talmente tanto da concedersi, festeggiamenti in corso, una scappatella con un invitato, degna di un malfatto telefilm per adolescenti.

Fatte le storie, bisogna farne sceneggiatura. Oppure no: von Trier le “mette in fila”, una dietro l’altra. Forse nel rispetto di quel “voto di castità” firmato nel 1995 (che diede vita a Dogma 95, movimento cinematografico che giurò di sottostare a un decalogo di leggi), il regista preferisce “purificare” il cinema eliminandone anche la sceneggiatura. Poco importa se – tante volte – è una sceneggiatura bella a fare di un film un film bello. Chissà, magari l’intenzione di von Trier era quella di creare una sceneggiatura originale accostando le due storie (sono due? Sono storie?). O, magari, il suo intento era proprio quello di lasciare attonito il pubblico davanti alla sua irriverente opera (che irriverente non è).

Il “dio-regista” di felliniana memoria è capace di creare mondi, inventare storie, narrare e far vivere. È un essere umile a tal punto da farsi artista. Operaio e creatore. Von Trier – qui e sempre – si crede dio prima di essere regista e, come tale, è poco operaio e tanto prepotente. «Ormai tutti fanno arte», bisbiglia Cheyenne-Sean Penn in This Must Be the Place [Sorrentino, 2011]; come non dargli ragione.

Melancholia è passato sopra di noi, ma il suo passaggio non è stato così ravvicinato come si aspettava il piccolo Leo. Lui sognava un passaggio ravvicinato e ha avuto un impatto distruttivo; noi avremmo voluto del cinema ma von Trier non è riuscito a passarci abbastanza vicino. Poco male, almeno è passato.

Paolo Schipani

 

In sala: TheSpace Cinema Le Torri Bianche, Apollo spazioCinema, UCI Cinemas Bicocca, Gloria Multisala, The Space Cinema Cerro Maggiore, Skyline Multiplex, UCI Cinemas Pioltello, Arcadia Bellinzago Lombardo, Multisala Capitol SpazioCinema.

 

 

 

questa rubrica è cura di Paolo Schipani e Marco Santarpia

rubriche@arcipelagomilano.org

 



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