25 ottobre 2011

musica


BLACK AND WHITE

Anche la scorsa settimana è accaduto che il concerto da cui ci si attendeva moltissimo ha profondamente deluso, mentre quello che si sarebbe detto più curioso che interessante si sia rivelato magnifico. E’ un teorema sul quale più volte ci siamo intrattenuti, e cioè che i grandi artisti si impigriscono e si spendono poco, mentre quelli meno famosi o non ancora noti al pubblico si impegnano e danno ottimi risultati.

Siamo sempre stati grandi estimatori di Alexander Lonquich e dunque lunedì scorso siamo andati con entusiasmo a sentirlo al Conservatorio, dove ha tenuto il suo concerto annuale per le Serate Musicali esibendosi, con la moglie Cristina Berruti, in un programma tutto di musiche per pianoforte a quattro mani. Si sa che il repertorio per pianoforte a quattro mani è, con poche straordinarie eccezioni, molto modesto e frequentato soprattutto per motivi didattici, per far suonare l’allievo insieme al maestro sì da trasmettergli simbioticamente i fondamenti della tecnica e dell’interpretazione. I coniugi Lonquich sono molto gradevoli a vedersi – anche la loro foto in locandina, così abbracciati, esprime tenerezza – e sono degli ottimi professionisti, ma è possibile che per il piacere tutto loro di suonare insieme debbano propinarci un programma di musiche noiosissime e di serie B?

Le “Sei epigrafi antiche” sono un mero esercizio di ricerca delle sonorità più evanescenti, scritte da Debussy per se stesso e per gli esecutori che vogliono approfondire alcuni aspetti della poetica simbolista, forse ottime per un pubblico di studenti del Conservatorio ma prive di qualsiasi interesse per un pubblico da concerto. Non è andata meglio con il “Divertimento all’ungherese”, probabilmente scritto da Schubert come passatempo domenicale per indagare alcuni temi magiari, che l’avevano incuriosito durante una vacanza estiva, ma certo da non ascrivere nell’album dei suoi capolavori.

Il colmo è stato raggiunto con una trascrizione di “Le sacre du printemps” che Strawinskij aveva preparato per accompagnare le prove del balletto senza essere costretto ad impegnarvi l’intera orchestra; come ci ha spiegato lo stesso Lonquich non fu possibile trascriverlo per due sole mani, a causa della nota esuberanza della sua orchestrazione, e così fu necessario usarne quattro. Tutti sappiamo che l’incanto del “Sacre” strawinskiano risiede in massima parte nella ricchezza degli impasti strumentali, nelle crude asprezze dei timbri, nei rinvii ossessivi da uno strumento all’altro, e ridurre tutto ciò ai suoni del solo pianoforte ne fa un insopportabile polpettone. Lo stesso Strawinskij – ci perdoni questa … scommessa – non avrebbe permesso di eseguirlo in pubblico!

Quattro giorni dopo, all’Auditorium, un concerto interamente dedicato alla Russia con musiche russe, un direttore (Eugeny Bushkov) e un pianista (Boris Petrushansky) russi, ma con una smagliante e italianissima Orchestra Verdi. Programma impaginato magistralmente: prima il “Capriccio italiano” di Čajkowskij (un affettuoso omaggio al nostro paese), poi il “Concerto per pianoforte, tromba ed archi” opera 35 di Šostakovič (la tromba era l’ottimo Alessandro Caruana), e infine il ritorno a Čajkowskij con le Suite opera 71 da “Lo schiaccianoci”.

Bushkov è un personaggio che sembra ispirarsi alle più celebri caricature dei direttori d’orchestra, con una punta in più di mefistofelico: chioma abbondantissima, lunga e arruffata, lunghe braccia sottili e mani adunche che sembrano voler raggiungere i musicisti uno ad uno per cavare il suono dai loro strumenti, un corpo flessuoso e mobilissimo che fa svolazzare le code del frac. Ma le melodie dei due pezzi fin troppo noti di Čajkowskij (a chi non vien voglia di canticchiarle mentre le si ascolta?) lui le ha totalmente “create” – come ripeteva Sergiu Celibidache ai suoi allievi – e non solo “riprodotte”, ha saputo andare alle radici più intime della malinconia slava e rivelarci, nel Capriccio, le affinità fra quella e il temperamento italiano. Una grande lezione di musica.

Šostakovič è un autore ancora troppo poco eseguito in Italia e quando ci si imbatte in lui non se ne rimane mai delusi; le sue opere sono sempre incisive, logiche, appassionate, convincenti e – meglio di qualsiasi libro o film – raccontano le tragedie e le contraddizioni della Russia del secolo appena trascorso, un secolo da lui pienamente e dolorosamente vissuto. L’interpretazione che ne ha offerto Petrushansky è stata così lucida e penetrante da farci riflettere sulla fortuna di avere un pianista di questa levatura, grande conoscitore di Šostakovič (di lui era anche il delizioso bis) che vive a quattro passi da Milano (insegna a Imola) e che praticamente ignoriamo. Uno dei tanti sprechi del nostro paese.

 

 

BARENBOIM ALLA SCALA

Tilla Giuliani, la mitica fondatrice e presidentessa del Circolo Abbadiani Itineranti, commentando l’arrivo di Barenboim alla Scala nel ruolo di nuovo direttore musicale, ha dichiarato a Repubblica “… il prestigio dell’artista è innegabile ma avrei preferito uno più giovane, magari italiano come Gatti, e con meno impegni. Soprattutto spero non si instauri una nuova dittatura”. Parole che non si possono non condividere, e tuttavia non si possono lasciare senza un commento e qualche ragionamento.

Innanzitutto dobbiamo ricordare i precedenti per dare un senso storico a questo arrivo: da Toscanini (1898-1908, poi ancora 1921-1929) a Tullio Serafin (1909-1918), un po’ di squallore fascista e dopo la guerra Victor De Sabata fino al 1953. Seguono Carlo Maria Giulini (1953-1956), l’indimenticabile passaggio di Guido Cantelli (morto una settimana dopo aver ricevuto l’incarico, ma chi c’era ricorda ancora una Settima di Beethoven da … levitazione), Antonino Votto fino al 1965, Gianandrea Gavazzeni (1965-1968), Claudio Abbado (1968-1986) e Riccardo Muti (1986-2005). Dal 2 aprile 2005 la Scala non ha avuto un direttore musicale o – come si diceva – stabile. E’ stato un bene? Era meglio continuare così? O al contrario era assolutamente necessario designare subito un nuovo “dominus” cui affidare l’orchestra e tutta la produzione musicale del teatro?

Noi siamo dell’opinione di Lissner: dopo l’autoreferenzialità (Foletto) e l’isolamento culturale dell’epoca Muti (checché ne dica Micheli, suo grande estimatore), occorreva una pausa di riflessione. Bisognava dare all’orchestra il tempo di recuperare autostima, duttilità e freschezza, soprattutto di ritrovare in ciascuno dei suoi elementi la capacità di sentirsi vero musicista e non solo pedissequo esecutore materiale. L’orchestra scaligera uscì mortificata, senza passione e senza orgoglio, dal ventennio mutiano. E si sono visti i progressi fatti in questi ultimi sei anni, grazie soprattutto ai tanti direttori che hanno finalmente potuto e voluto riprendere a frequentare il nostro teatro e alla capacità del suo sovrintendente di sceglierli di ogni paese, spesso giovani e innovativi, creando un turnover che ha fatto bene a tutti, pubblico compreso.

Dopo sei anni, però, ritrovata la propria dignità, anche noi pensiamo giunta l’ora di offrire all’orchestra un trainer con il quale fare un lavoro complesso di costruzione, di largo respiro, con tempi adeguati, al di là della logica dei continui avvicendamenti ed exploit (per quanto di altissimo livello); un lavoro da fondisti più che da discesisti. Dunque molto bene che vi sia un nuovo direttore musicale con un piano di lungo termine (cinque anni) e con tempi adeguati (quindici settimane di lavoro all’anno) per impostare un lavoro metodico.

Barenboim non è italiano, è il primo direttore musicale straniero. Ma è importante che sia italiano? Perché dovrebbe esserlo, quando abbiamo magnifici direttori italiani alla guida delle più prestigiose orchestre in tutto il mondo? Non crediamo che i berlinesi si siano adontati quando Abbado successe a Von Karajan alla guida della loro straordinaria Filarmonica. E perché dovremmo adontarcene noi? Domandiamoci piuttosto se Barenboim è proprio l’uomo giusto per la Scala o se si poteva aspirare a qualcosa di meglio o di diverso.

In altri tempi abbiamo espresso su queste pagine delle riserve sul musicista Barenboim; ad esempio ci parve leggerina l’interpretazione della Carmen del 2008 (quella, ricorderete, con la bella voce di Anita Rachvelishvili e la stupefacente regia di Emma Dante) e poco verdiana, ancorché ricca di suggestioni, la sua Messa da Requiem del 2009; ancora, dicemmo che aveva troppe smagliature tecniche (sembrava non avere sufficiente tempo per preparare i concerti) quella famosa “integrale” delle Sonate di Beethoven, sempre del 2009, anche se ne riconoscemmo la grande lezione interpretativa. Non possiamo però dimenticare che al Barenboim “maestro scaligero” vanno ascritte una magnifica Nona Sinfonia di Beethoven, con la quale tornò alla Scala dopo l’uscita di Muti, e due grandissime interpretazioni wagneriane come il Tristano del 2007 e la Walkiria del 2010.

Ciò che convince di più, in Barenboim, più che la perfezione o l’affidabilità della singola prestazione, sia al podio che al pianoforte, è la qualità dell’uomo e del suo modo di sentire la musica e di proporla al pubblico, in uno spirito di servizio (alla musica) e di partecipazione (con l’orchestra e con il pubblico), come fosse il celebrante di un rito corale cui invita tutti a partecipare, conscio del fatto che la musica la si fa e la si gode tutti insieme.

Convince anche il Barenboim che non è argentino, né israeliano, palestinese o tedesco, ma un vero cittadino del mondo, o se vogliamo del mondo occidentale, il mondo della musica che ci appartiene tutta, senza alcuna distinzione di nazionalità. Il cittadino che si trova bene ovunque possa suonare, con le mani o con la bacchetta non importa, che parla sette lingue e con esse comunica in modo diretto con qualsiasi musicista, che non ha altre fisime che quella di fare della buona musica. Certo, ha molti impegni (Milano e Berlino insieme!) e qualche anno (quasi settanta) sulle spalle, ma è pieno di energie e sa trasmetterle agli altri per cui questo non sarà un problema. Soprattutto non vi sarà il rischio di una nuova dittatura. Abbiamo già dato e siamo garantiti da Lissner, che ha dimostrato in questi anni di avere la grandissima capacità di assicurare l’armonia nella difficile e complessa realtà del teatro dell’opera.

Dunque ancora una volta “grazie Lissner” e – cara Tilla – diamo il più cordiale benvenuto a Barenboim con i migliori auguri di buon lavoro.

 

Musica per una settimana

Giovedì 27, venerdì 28 e domenica 30 all’Auditorium, l’Orchestra Verdi diretta da Giuseppe Grazioli esegue un programma inusuale ma fantastico, introdotto da un pezzo strepitoso di Šostakovič, la “Jazz Suite” n. 2, per proseguire con la suite “Francy Free” di Leonard Bernstein e concludersi con la “Night Creature” di Duke Ellington.

Giovedì 27 e sabato 29 inizia la stagione dei Pomeriggi Musicali al Dal Verme con un concerto tutto Brahms (direttore Corrado Rovaris, violino Valeriy Sokolov): il Concerto per violino opera 77 e orchestra e la prima Sinfonia opera 68

Lunedì 31 la Filarmonica della Scala diretta da Omer Meir Wellber ripropone il Concerto n. 5 per pianoforte e orchestra – l’Imperatore – di Beethoven, con Emanuel Ax, e la Quarta Sinfonia di Čajkowskij

Giovedì 3 e venerdì 4 novembre due concerti straordinari della Russian Academic Synphony Orchestra “Città di Verbitsky” che, alla sala Verdi del Conservatorio per le Serate Musicali, eseguirà le Sinfonie 4 e 5 di Čajkowskij e i due concerti di Schumann – quello per pianoforte (con Elisso Virsaladze) e quello per violoncello (con Natalia Gutman) – con due introduzioni di Glinka. Da non perdere.

Ricordiamo infine che alla Scala mercoledì 26 ottobre – con le repliche del 29 ottobre e 2, 5, 8, 15 e 18 novembre – andrà in scena “La donna del Lago” di Rossini diretta da Roberto Abbado, e che – sempre alla Scala – domenica 6 novembre inizia il ciclo dedicato al confronto Beethoven-Schönberg, diretto da Daniel Barenboim, con le prime due sinfonie di Beethoven e i “Sei lieder” opera 8 di Schönberg con la soprano Deborah Polaski.

 

 

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org

 



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