18 ottobre 2011

FINANZA E MILANO. DECADERE INSIEME


Milano era, e resta, il nostro centro finanzia-rio; se perde peso è perché tutta l’Italia declina, e Milano con lei. Se Atene piange, Sparta non ride, e Torino deFiatizzata, come Genova colpita dalla morte delle Partecipazioni statali, non stanno meglio. Questo ha contribuito alla perdita di centralità di Milano. Come dice Pietro Modiano nella video intervista su questo numero di ArcipelagoMilano, essa poteva aspirare a un ruolo che andasse oltre lo stretto ambito nazionale, ma il cavallo ha scartato davanti all’ostacolo, rifiutandolo; era troppo alto per le sua capacità, o troppo ambizioso per un ceto dirigente che si è progressivamente rattrappito, lasciando la città in mano a un ceto senescente di bottegai.

Della perdita di peso di Milano è rappresentazione icastica la vendita di Borsa Italiana al London Stock Exchange (LSE), avvenuta nell’estate del 2007; era meglio tenerla? Forse sì, ma allora tutti spingevano per le aggregazioni fra le Borse, e sul latte versato è inutile piangere. Finanza non vuol solo dire banche e Borsa, ma anche tutta una serie di attività che intorno ruotano: dalle società di revisione, agli studi legali, alle società di consulenza, fino ai servizi ausiliari anche minori (stampa dei documenti, pulizie degli uffici, etc.), è l’indotto della finanza qui ha un peso notevole.

La crisi mette però sotto accusa la grande finanza: essa non sarà più quella dispensatrice di ricchezze facili che è stata dalla metà degli anni ’90. Il nuovo paradigma non è chiaro, ma certo riprenderà spazio la finanza “normale”, quella che ha a che fare con le imprese e le famiglie; lontana dalle grandi sofisticazioni, e dalle grandi truffe, che ci hanno portato a questi mali passi.

Nella seconda metà degli anni ’90, e di nuovo fra il ’06 e il ’08, i governi di centro sinistra hanno cercato di promuovere Milano come “Piazza Finanziaria Italiana” (PFI), sulla scia di Paris Europlace. Questo sforzo, già limitato nell’obiettivo- si veda l’aggettivo “Italiana” contrapposto al riferimento francese all’Europa – è stato perseguito troppo flebilmente, onde l’inanità dello sforzo. Non siamo riusciti (anch’io collaborai all’inanità) né a innescare un processo che inserisse Milano in una combinazione fra Borse in cui essa potesse mantenere un profilo autonomo, né nel più modesto obiettivo di coordinare le azioni dei vari operatori, inserendole in un disegno nazionale organico. Siamo refrattari al coordinamento; ognuno vuol coordinare, ma non essere coordinato.

In tutto il mondo, in verità, le borse van perdendo la funzione di luogo ove le imprese raccolgono il capitale per lo sviluppo, e gli investitori si scambiano le azioni acquistate. Diventano sempre più grandi sistemi informativi, dominio di chi opera sul brevissimo termine. La fuga degli investitori dal rischio, dovuta alla crisi, li dissuade dall’investire nelle medie imprese, il cuore competitivo della nostra industria. Si aggiunga che le nuove tecniche, come il trading ad alta frequenza, concentrano le trattazioni sui titoli principali, così vieppiù affievolendo l’interesse su tali imprese.

Milano dovrà rinunciare dunque alle sfavillanti luci della ribalta, ma potrà (meglio, dovrà) servire meglio l’economia reale; potrà così conservare un ruolo, e una certa importanza come centro finanziario di un’Italia che è pur sempre patria di migliaia di ottime imprese medie.

Nella crescita del Paese uscito dalla guerra svolsero un grande ruolo gli istituti di credito speciale (ICS): i “Mediocrediti” regionali (in particolare quello lombardo), l’Imi, Interbanca, Centrobanca etc.. La legge bancaria del ’36, dopo la grande crisi degli anni ’30, affidò loro il compito di finanziare le imprese a medio-lungo termine, emettendo obbligazioni di pari scadenza. Negli ICS si formò la competenza per valutare i programmi d’investimento delle imprese sotto l’aspetto non solo finanziario, ma anche tecnologico e commerciale; in dialogo serrato con l’imprenditore, cui venivano richiesti, quando necessario, aumenti di capitale. Certo, tale competenza non dava garanzie assolute, e non mancarono gravi perdite su talune operazioni; specie dell’Imi a suo tempo impegnato in quella “guerra chimica” che non ebbe vincitori ma fece solo cadaveri (Sir, Liquichimica etc.) o feriti di varia gravità (Montedison e altre). Lentamente, a partire dalla fine degli anni ’70, si andò attenuando, per poi scomparire del tutto nel ’93, la demarcazione fra credito a breve e a lungo termine. Ancora ci affligge la conseguente incapacità di valutare i piani di lungo termine delle imprese.

Merita un discorso a parte Mediobanca – anch’essa ICS, ma in una classe a sé – la sola, fino agli anni ’90, ad assumere partecipazioni in imprese; poteva essere la punta di diamante degli ICS, aprire loro la strada con le sue operazioni di grande finanza. Così non fu, nonostante essa sia stata sempre in prima linea in tali operazioni, sempre osannata nell’aneddotica finanziaria. Ai grandi clienti, però, il padrinaggio di Mediobanca non ha portato bene; e questo ha avuto molto a che fare col declino dell’Italia, e di Milano come suo centro finanziario. Sparite le Olivetti, le Falck, tagliate a fette le Pirelli e le Montedison, tanto ridimensionata la torinese Fiat, che però a Milano contava. Soprattutto, Mediobanca si adoperò per saprofitizzare la grande protagonista del miracolo italiano, la Banca Commerciale Italiana, riducendola al ruolo di umile ancella, poi fagocitata da Banca Intesa. Poteva dare un grande ruolo a Milano, Mediobanca; non fu all’altezza della sfida. L’Italia, e Milano, ne scontano le conseguenze.

Questo fu il passato, che condiziona il domani nel quale la finanza milanese dovrà, e con urgenza, colmare una sua grave lacuna: la mancanza di finanziatori adatti – per competenza e per struttura finanziaria – a valutare le nuove iniziative, specie ad alto contenuto tecnologico. Paiono impari alla bisogna i naturali interlocutori di questo arduo compito, i nuovi padroni della città, per inciso nati tutti al di fuori di, se non contro, Mediobanca. I Del Vecchio, i Benetton (che spesso su Milano gravitano), o i Berlusconi e i Moratti. Questi ultimi devolvono a Milan e Inter le loro grandi ricchezze, profuse nelle tasche di pochi ventenni viziati e dei loro procuratori anziché a beneficio della città. Ecco, il declino di Milano, che speriamo il suo nuovo ruolo possa contrastare, si vede a occhio nudo nel modo in cui i suoi grandi ricchi attuali fanno del mecenatismo: tanto mutato rispetto a chi li ha preceduti.

 

Salvatore Bragantini

 

 



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