11 ottobre 2011

VIOLENZA URBANA: MILANO E LA RICETTA AMERICANA


 

La “seconda copertina” de L’Espresso del 22 settembre, recita “Roma violenta”. A sorpresa le città europee, che la vulgata mediatica aveva sempre ritenute meno pericolose delle città americane, diventano violente al punto che il governo inglese, dopo i tumulti delle notti infuocate di Tottenham, si sottopone all’umiliazione storica di chiamare, in aiuto di Scotland Yard, il leggendario “Bill” Bratton”, ora capo della polizia di Los Angeles. Anche le immagini televisive delle proteste politiche a New York, in cui vi è stato un intervento pesante della polizia, testimoniano di scontri che non assomigliano neppur lontanamente alla violenza che si è vista sugli schermi nell’estate inglese. Segno di una inversione di tendenza, marcata dalle ripetute violenze nelle città francesi, da Strasburgo a Parigi, dalla tragica carneficina di 77 persone a Oslo e sull’isola di Utoya e dalla violenza diffusa denunciata da Gomorra.

L’immagine di New York come città violenta ha una lunga storia, spesso accompagnata da una ricca rappresentazione letteraria. Dal film di Elia Kazan con Marlon Brando (On the Waterfront, (1954), a quello di Martin Scorsese, (2002), Gangs of New York, che racconta la più violenta delle sommosse (riots) newyorkesi, che Lincoln dovette reprimere a cannonate. Negli anni sessanta e settanta New York entra in quella che fu la peggiore crisi finanziaria delle città americane e dopo la quasi bancarotta del 1976, New York si trovò a rappresentare la città simbolo della riscossa, con il sindaco Ed Koch più attento però allo sviluppo immobiliare che ai diritti delle minoranze, ma non ostile agli immigrati.

Sono gli anni in cui il disordine sociale è forte e in cui l’immagine di una giungla d’asfalto domina la scena, mentre il city marketing cerca di contrastare l’immagine della “cattiva mela” del welfare degradato, con la Apple di “I love NY”: la mela buona contro la mela cattiva. E’ l’era della teoria delle “broken windows”, cioè della ripulitura delle apparenze di disordine sociale e fisico nelle aree più degradate della città che diventano gli slogan di questa più generale “supply side criminology” che puntava su una politica di massicce incarcerazioni e che porta a una moltiplicazione per sette degli arresti nelle città americane.

In quegli anni si mette a punto l’altra strategia comunicativa, quella della “zero tolerance”. Questa è l’era inizialmente dominata dalla personalità del leggendario capo della polizia William J. (Bill) Bratton il bostoniano che venne nominato dal sindaco Rudolph Guliani 38° capo della NYPD, New York Police Department, e collaborò con Giuliani ad attuare la filosofia “Zero Tolerance”. Bratton ci aggiunge uno strumento importante, che è ancora oggi in atto e cioè il sistema CompStat di mappatura dei reati che permetteva di rappresentare delle mappe di concentrazione degli eventi criminosi con la tecnica statistica degli “hotspots.

“Nei due decenni recenti i newyorkesi hanno beneficiato della più lunga e sostenuta caduta del crimine di strada mai verificatasi in una grande città del mondo sviluppato”, scrive nella sua ultima ricerca, Franklin E. Zimring, criminologo di U.C. Berkeley, (Scientific American; “How New York Beat Crime”, Ago. 2011, pag. 55-59) confutando però le interpretazioni correnti. La zero tolerance non c’entra. E’ vero che a New York ha conosciuto una diminuzione del tasso di criminalità maggiore delle altre grandi città americane; ma gli arresti sono stati solo un settimo di quelli della media americana. Nonostante ciò la violenza è calata più del doppio ed è durata due volte più a lungo, molto dopo la fine del mandato di Giuliani. Non funziona neppure l’ipotesi che la “gentrificazione” e l’aumento dei costi nel centro di Manhattan, abbiano semplicemente spostato poveri, homeless, e microcriminalità al seguito, nei boroughs (contee) periferici.

Infatti la criminalità non è diminuita solo a Manhattan: l’indice composto per i sei reati più gravi (omicidio, stupro, aggressione, furto di auto e con scasso e rapina) ha avuto eguale tasso di diminuzione anche negli altri boroughs. I nuovi dati su New York, smentiscono poi un collegamento diretto tra violenza e altri problemi sociali (droga, prostituzione e così via). Come sintetizza Zimring: “New York ha vinto la “war on crime”, ma ha perso la “war on drugs”; la violenza è diminuita drasticamente, ma il consumo di droghe no.

Conclusioni? In primis l’importanza della presenza della polizia, diretta però a scoraggiare i reati, non a riempire le carceri di futuri delinquenti recidivi. Sembra una banalità, ma va ribadita a fronte delle sciocchezze, come le famose ronde, che hanno inzeppato le pagine dei quotidiani lasciando a secco le pattuglie di polizia. Secondo, le mappe computerizzate di un sistema informativo efficiente, capace di individuare le aree a rischio per un intervento tempestivo – marchio distintivo della politica di Bratton. Il braccio, si direbbe, e la mente.

La lezione più importante che si può trarre dall’esperienza di New York, è che tassi elevati di omicidi e aggressioni non sono il portato inevitabile della vita delle grandi città. Ma i sindaci non pensino da andare a nozze con i fichi secchi: a New York hanno aumentato gli effettivi della polizia con una tassa apposita, a Roma violenta un agente di polizia si lamenta “Con due volanti al massimo, dobbiamo controllare una zona con 200mila abitanti e 400 arresti domiciliari.” Ed è di pochi giorni dopo, la notizia che i PM dell’antimafia hanno denunciato l’impossibilità di inviare le pattuglie perché il Ministero aveva tagliato i fondi per la benzina.

Mentre a Milano si è verificato l’inquietante caso del Comandante dei Carabinieri che se n’è andato sostenendo che non è vero che i dati sostengano l’ipotesi che la criminalità organizzata si sta diffondendo anche in Lombardia. I dati però in un senso o nell’altro finiscono per vederli solo i pochi. In tempi di disordini sociali la questione delle forze dell’ordine, soprattutto per governi riformatori, diventa di primaria importanza. Anche Milano ha visto una diminuzione dei reati “da strada”, nonostante la forsennata e dissennata agitazione della paura dei cittadini da parte di chi nel contempo lavorava a pieno ritmo per distruggere tutte le capacità di reazione dello stato. Vorremmo che si continuasse per questa strada con forze dell’ordine sempre più professionali mese in grado di colpire le cause della violenza e dell’illegalità, non le manifestazioni minori.

 

Guido Martinotti

 



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