20 settembre 2011

SONDRIO E MONZA IN PORTOGALLO


Abolire le Province. E’ diventato uno slogan contro la casta, uno dei tanti argomenti demagogicamente agitati per gettare fumo negli occhi dei cittadini: 54.000 posti aboliti, dimezzamento dei parlamentari, etc. Non ce lo possiamo permettere più. Con drammatica evidenza, in questa estate turbolenta si è posto un problema, non banale, di competitività del nostro sistema-Paese e, più in generale, delle democrazie europee e occidentali che, in assenza di risposte all’altezza, porrà a rischio molte garanzie e tutele che oggi siamo abituati a dare per scontate. La discussione sugli assetti istituzionali del nostro Paese è un pezzo di questa questione. Per dire meglio è uno degli spazi che abbiamo per dare vita a una manovra di rilancio dello sviluppo non basata su nuove tasse. Innanzitutto occorre definire con chiarezza e precisione il tema in discussione che, a mio giudizio, è il seguente: “Qual è il numero minimo di livelli di Governo costituzionalmente garantiti che sono necessari per una democrazia efficace ed efficiente nel nostro Paese”.

Sul piano quantitativo dei risparmi di spesa non ci possono essere dubbi: ridurre il numero di livelli di governo è, a tutti gli effetti, una grande semplificazione e comporta una riduzione dei costi della democrazia che nessun taglio di numero e stipendio dei parlamentari può eguagliare, tranne che sul piano simbolico. Non solo. Senza voler scomodare il rasoio di Occam, il numero minimo è anche il numero migliore: meno Governi, più governo. Il costo di un organismo costituzionalmente garantito, infatti, non sta solo nello stipendio dei consiglieri eletti e della Giunta, nelle auto blu o nel costo delle elezioni ma anche nella maggiore complessità del processo decisionale che la sua esistenza comporta. A guardar bene, spesso quest’ultimo si rivela un costo assai più rilevante, per i territori amministrati, dei costi diretti degli organismi stessi perché può comportare che opere essenziali non vengano realizzate o lo siano in tempi biblici e con progetti superati e pasticciati da troppi compromessi.

Bisogna, però, vedere se la riduzione degli organismi elettivi non comporti un peggioramento della qualità del governo. Ottenere l’efficienza a scapito dell’efficacia o della partecipazione potrebbe non essere una scelta economicamente vantaggiosa, nel lungo periodo. A questo proposito sorge un dubbio che riporta al concetto di “costituzionalmente garantiti”: davvero ridurre la complessità costituzionale del nostro assetto istituzionale comporta necessariamente una riduzione della qualità del Governo? Ciò che è in Costituzione si applica a tutto il territorio italiano allo stesso modo. E’ una camicia rigida che tutti dobbiamo indossare. La parte onesta del dibattito sul federalismo di questi anni ha portato a riflettere sulle molte diversità del territorio italiano. Consentire una maggiore flessibilità nella risposta alle esigenze di territori fra loro diversissimi potrebbe essere una soluzione vincente. Si delinea così una opportunità di riforma che contemporaneamente riduce i costi e migliora la nostra democrazia sia in termini di efficienza che di efficacia.

La mia umilissima proposta è, quindi, la seguente: de-costituzionalizzare Provincie e Aree metropolitane e affidare alle Regioni il 30% (la percentuale è del tutto indicativa) delle risorse risparmiate grazie all’azzeramento dei costi diretti degli organi elettivi, per finanziare gli organismi che, utilizzando il personale disponibile, assicurino le funzioni di amministrazione sovra-comunale necessarie secondo una logica di sussidiarietà verticale coerente con gli specifici territori di ciascuna Regione. Questi organismi potranno essere non elettivi o elettivi di secondo livello a seconda delle valutazioni delle singole Regioni ma dovranno richiedere costi di funzionamento compatibili con le risorse di cui sopra. La questione delle aree metropolitane, ad esempio, si pone in Lombardia ma non in Umbria e neppure in Emilia Romagna che però ne è toccata per quanto riguarda la provincia di Piacenza. La città metropolitana potrà essere quindi una risposta utile per la grande area che gravita intorno a Milano (lombarda, emiliana o piemontese (Novara) o ticinese che sia) mentre la Valtellina e le valli Bergamasche richiederanno risposte diverse. A cosa serve la Regione se non per valutare e decidere come meglio organizzare il territorio?

Dunque, l’opposto della proposta centralista del governo dei federalisti che diceva: abolire le province con meno di 300.000 abitanti. Per stare in Lombardia, la provincia di Sondrio (molto meno di 300.000 abitanti) ha di gran lunga più senso della Provincia di Monza e Brianza (molto più di 300.000). Tra l’altro, ritengo che questo assetto sarebbe corrispondente al disegno originario dei Costituenti e che sia coerente con il principio di sussidiarietà verticale contenuto nel libro bianco di Delors della fine del secolo scorso. Mi ricollego a Delors perché il mio pensiero, più in generale, è il seguente: l’Unione Europea per ritrovare competitività nel nuovo scenario globale, ormai consolidato, deve ridurre i costi strutturali di gestione della democrazia per non sottrarre risorse agli interventi a sostegno dello sviluppo sostenibile, dell’inclusione sociale e della cooperazione internazionale, riducendo al contempo il carico fiscale, per quanto possibile. La tecnologia lo consente e l’evoluzione delle abitudini di consumo e di relazione dei cittadini lo facilitano. La democrazia europea può (e deve) organizzarsi su quattro livelli istituzionalmente garantiti: Comuni, Regioni, Stati nazionali e UE, articolando le tematiche intermedie in modo più flessibile, in funzione dei territori. Tra cento o duecento anni forse potranno diventare tre (senza gli Stati in taluni casi e senza le Regioni in altri).

La riduzione dei costi strutturali non riguarda solo i livelli di governo ma anche altri aspetti: a cosa servono 600 (seicento!) e passa ambasciate dedicate alle relazioni intra-UE? Cosa fa, tutto il giorno l’ambasciatore italiano in Portogallo? Come possiamo competere con Cina, Usa, Brasile, Russia che a queste voci in bilancio hanno zero? A che cosa servono 27 (fra poco 28 e poi 29 e poi 30) eserciti con 27 strutture di comando, 27 aeronautiche militari con 27 politiche di acquisto e manutenzione diverse etc.? Come competere con gli altri che hanno un solo esercito, una sola aviazione, una sola marina?

Noi tutti siamo portati a pensare che la democrazia in cui viviamo, le tutele e la libertà che ne derivano per ciascuno siano dati di fatto acquisiti per sempre. Esse sono, invece, delle grandiose eccezioni nella Storia dell’umanità ed esperienze minoritarie nella geografia contemporanea e dunque fragili e precarie. Senza una costante spinta alla riduzione dei costi strutturali della democrazia e una continua manutenzione dei suoi assetti che non ne pregiudichino la finalità sostanziale, il rischio è che venga alla fine messa in discussione la democrazia stessa, almeno per come è intesa in Europa. Una concezione a cui personalmente sono affezionato. L’Italia delle mille manovre ha vissuto in questa estate 2011 un primo assaggio di una sfida che si ripresenterà. Aumentare le tasse non è più una risposta percorribile.

 

Sergio Fumagalli



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